Approvata con oltre 200 voti di scarto la riforma della PAC
(Rinnovabili.it) – Ha vinto il business as usual, il modello di agricoltura intensiva che ha già martoriato la biodiversità del continente e la lobby dell’agribusiness. La contestatissima riforma della politica agricola comune UE è passata. L’europarlamento riunito in seduta plenaria ha votato oggi pomeriggio la riforma della PAC, il pacchetto di misure che regolano le attività agricole e il loro impatto su clima e ambiente per i prossimi 7 anni. Frutto di un compromesso al ribasso tra i popolari del PPE, i social-democratici di S&D e i liberali di Renew. Che ha snaturato la proposta iniziale, disallineandola dagli obiettivi del Green Deal e dalle ambizioni della Farm to Fork.
La riforma della PAC è stata approvata a larga maggioranza, con 425 voti a favore, 212 contrari e 51 astenuti. Il patto ha retto, nonostante qualche defezione. A ridosso del voto, infatti, una pattuglia di eurodeputati di S&D tedeschi e belgi aveva annunciato la sua opposizione. Seguiti anche dagli slovacchi del gruppo Renew. Contrari tutti i membri di GUE/NGL.
Com’è fatta la riforma della PAC
La nuova politica agricola comune sulla carta presenta delle differenze importanti rispetto alla versione precedente. La più evidente è chi gestisce l’incredibile quantità di denaro pubblico della PAC, 358 miliardi di euro pari a 1/3 dell’intero budget dell’Unione Europea. Saranno direttamente gli Stati, e non più Bruxelles. Due i problemi che emergono da questo cambiamento. La PAC è uno strumento formidabile per creare consenso. Attorno a questa torta gravita tutto il settore primario, ma anche le industrie collegate a partire da quella dell’agrochimica. Se le chiavi della PAC sono in mano agli Stati, nulla impedisce che venga piegata alla logica della convenienza politica del momento, a seconda del colore e degli interessi del governo di turno. Il secondo problema si chiama corruzione: molti paesi UE non brillano certo per la gestione virtuosa dei soldi pubblici. E così la nuova PAC rischia di trasformarsi nella proverbiale gallina dalle uova d’oro.
C’è poi il capitolo sussidi. L’accordo trovato tra i principali partiti gravitava proprio su questo punto. La riforma prevede che quasi metà dei fondi, cioè 162 miliardi di euro, siano usati come supporto al reddito degli agricoltori ma senza condizioni vincolanti in tema ambientale. In pratica, così si gettano le basi per mantenere in vita un sistema che, finora, non solo non è stato efficace nella protezione dell’ambiente, ma è stato anche una fucina di diseguaglianze e sperequazioni visto che ha distribuito l’80% dei sussidi ad appena il 20% degli agricoltori europei: quelli più grandi.
Gli eco-schemi vengono svuotati
Sotto il rullo compressore delle larghe intese si è frantumata anche la misura di bandiera che doveva garantire la sintonia con il Green Deal. Cioè gli eco-schemi, quei meccanismi che dovevano permettere una distribuzione più mirata dei fondi e incentivare la diffusione di pratiche agricole attente alla biodiversità e alla tutela dell’ambiente e del clima. Il trucco è nei criteri per accedere a questo pacchetto di fondi: quelli ambientali non sono vincolanti, e sono stati introdotti molti criteri che rispondono a logiche prettamente economiche. Tradotto: gli eco-schemi possono finanziare attività che puntano solo al profitto e se ne infischiano dell’impatto sul territorio e sul clima.
Se poi qualche paese particolarmente zelante volesse adottare criteri più stringenti, insomma andare in autonomia e spingere per raggiungere davvero gli obiettivi climatici: ebbene, sarà bloccato in partenza. Perché la riforma della PAC di fatto impedisce ai paesi membri di adottare criteri più stringenti nella distribuzione delle loro quote di fondi, in nome dell’omogeneità a livello UE e della concorrenza.
Le altre picconate del parlamento alla PAC
Ci sono poi una serie di piccole modifiche, apparentemente minori, che invece avranno un impatto forte perché erodono, comma dopo comma, le misure di tutela degli habitat e degli ecosistemi. Spesso attraverso lo stralcio di molti indicatori usati finora. Le larghe intese in parlamento hanno cancellato l’obbligatorietà, per le aziende agricole, di usare uno strumento di gestione sostenibile dei nutrienti. Il divieto di arare i siti della rete Natura 2000 è più limitato: adesso restano off limits solo quelli dichiarati “ambientalmente sensibili”. Cioè non tutti.
Vengono poi cancellati gli indicatori che misuravano la quota di preservazione del paesaggio che spettava alle aziende. Senza i quali è impossibile monitorare il rispetto o meno di parti della strategia UE per la tutela della biodiversità. Via anche gli indicatori della riduzione delle emissioni del bestiame. In assenza di dati certi che questi fornivano, adesso non sarà possibile fissare degli obiettivi di riduzione delle emissioni per questo settore.
Le reazioni dopo il voto
Durissime le critiche delle ong e della società civile. “E’ chiaro come il giorno che questa proposta indebolisce il Green Deal. Adesso l’unica opzione credibile per la Commissione è ritirare la sua proposta di riforma”, attacca Harriet Bradley, policy officer di Birdlife Europe & Central Asia. Bradley si riferisce all’emendamento, rispetto alla proposta dell’esecutivo UE, che permette di contare al 40% i pagamenti diretti sotto il capitolo del budget destinato alla tutela dell’ambiente. Un escamotage, vecchio e adesso reintrodotto, che ha permesso a lungo di investire denaro in attività che nulla avevano a che vedere con l’ambiente e il clima. E che la Commissione si era impegnata a cancellare, definendolo come una linea rossa da non oltrepassare.
Corporate Europe Observatory, ong che segue da vicino le mosse delle lobby dell’agribusiness, commenta con un secco “l’esecutivo UE ha votato contro l’agricoltura sostenibile e la biodiversità. E’ un esito disastroso per la crisi climatica”.
Non stupisce che le dichiarazioni ufficiali del PPE obliterino la questione climatica lasciando spazio a economia e lavoro. “Oggi abbiamo adottato una soluzione che proteggerà sia gli agricoltori che l’ambiente in futuro”, ha affermato Herbert Dorfmann, deputato al Parlamento europeo e portavoce del PPE per l’agricoltura e lo sviluppo rurale. “Vogliamo proteggere milioni di aziende agricole a conduzione familiare in tutta Europa, per mantenere comunità rurali vive e per garantire posti di lavoro nel settore agroalimentare”.
Canta vittoria il relatore della parte principale della riforma, il popolare tedesco Peter Jahr. Che invece rivendica le qualità green della nuova PAC, a dispetto dell’impatto negativo che le misure approvate avranno. “Il Parlamento ha riconosciuto un legame esplicito tra il settore agricolo e l’accordo di Parigi e combina gli attuali pagamenti diretti con nuovi eco-schemi e un bilancio verde dedicato”.
Per Paolo De Castro di S&D la riforma è positiva e ne elenca i pregi: “evitato rinazionalizzazione Pac, rafforzato misure ecologiche, recuperato ruolo Regioni, introdotta novità su condizionalità sociale”. La riforma della PAC proposta dalla Commissione nel 2018, prosegue De Castro, “ha delegato enormi responsabilità agli Stati membri, il che significa una rinazionalizzazione de facto della PAC. Pertanto, il Gruppo Socialisti e Democratici ha chiesto ed è riuscito a riaprire la discussione sulla tutta la riforma, nonostante il voto iniziale della Commissione Agricoltura”.
A cui fa eco Pina Picierno (S&D), relatrice ombra della proposta. “Con le modifiche apportate abbiamo infatti cercato di mitigare quell’eccessiva flessibilità data agli Stati membri nella proposta iniziale, attraverso un nuovo sistema “ibrido” di controlli. In questa maniera garantiamo così un giusto equilibrio tra la certezza di non creare disparità e concorrenza tra gli agricoltori europei, mantenendo il carattere comune di questa politica, e il controllo di come vengono spesi i fondi di questa politica”.