Cambiamenti climatici, importazioni di pesce dall’estero e burocrazia sempre più asfissiante stanno mettendo in crisi un settore importante dell’agroalimentare italiano, a cui la pandemia ha assestato il colpo di grazia. A farne le spese è anche la sicurezza del consumatore
(Rinnovabili.it) – Una perdita di 500 milioni di euro tra produzione invenduta, crollo dei prezzi e chiusura dei ristoranti. Proprio la chiusura del settore HoReCa ha abbattuto del 30% la vendita di pesce italiano dall’inizio della pandemia. Anche garantire il rispetto delle misure di distanziamento e di sicurezza nelle imbarcazioni ha comportato dei costi, ma i pescatori hanno fatto il possibile per assicurare le forniture ai consumatori.
Il calo delle vendite alla ristorazione non è stato compensato dagli acquisti domestici, che pure nel 2020 sono cresciuti del 6,7% (analisi Coldiretti su dati Ismea). Una differenza importante si è registrata nelle vendite del pesce surgelato (+17,6%) rispetto a quello fresco (+2,3%), superato perfino dal pesce conservato, come ad esempio il tonno in scatola (+5,8%), essiccato o affumicato (+11%). È opportuno sottolineare che la vendita di pesce surgelato è ininfluente per il mercato italiano perché il 90% viene dall’estero, e molto spesso non ne è nemmeno ben chiara la provenienza.
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La situazione critica del settore della pesca si trascina da tempo: negli ultimi 35 anni ha perso quasi il 40% delle imbarcazioni con un impatto devastante su economia e occupazione, come indicano i dati dell’analisi di Coldiretti Impresapesca diffusi in occasione della Giornata del Mare.
Ogni anno gli italiani consumano circa 28 kg di pesce a testa, un dato complessivamente superiore alla media europea. Tuttavia altri Paesi europei con un’estensione costiera simile, come il Portogallo, hanno un consumo quasi doppio che raggiunge infatti i 60 kg pro capite in un anno.
Il cambiamento climatico altera l’equilibrio delle specie
La pandemia non è l’unico problema che ha pesato sul settore della pesca in Italia. Le normative europee e nazionali hanno imposto una drastica riduzione dell’attività di pesca (una limitazione legata anche alla protezione dell’ambiente e delle specie ittiche). Questi provvedimenti hanno ridotto le giornate effettivamente operative in mare a una media di poco inferiore a 140 l’anno. Se poi si aggiunge l’assenza di ammortizzatori e di politiche di mercato in grado di compensare le interruzioni si rende evidente che l’attività di pesca non è più sostenibile per una buona parte della flotta nazionale.
Ultima difficoltà, ma non per importanza, la disponibilità di pescato che è cambiata per effetto dei cambiamenti climatici che stanno provocando un rovesciamento negli equilibri di specie. Nel Mediterraneo sono comparse specie non comuni alle nostre latitudini che stanno diventando dominanti a scapito di quelle autoctone che stanno diventando rare. Tra le specie in sofferenza a causa del cambiamento climatico ci sono le alici e le sardine che patiscono l’innalzamento delle temperature.
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Cambiamenti climatici, importazioni di pesce straniero e burocrazia sempre più asfissiante hanno ridotto il numero dei pescherecci italiani ad appena 12mila unità: un depauperamento che mette a rischio il futuro di un comparto importante dell’agroalimentare italiano. Chi subisce gli effetti finali di questo complesso di difficoltà è l’ultimo anello della catena, il consumatore, che non mette nel piatto il pesce italiano – che offre garanzie di qualità e di sicurezza – ma quello proveniente dall’estero che è sottoposto a minori controlli.