L’ortofrutta italiana vale il 23% della ricchezza generata dal settore primario
(Rinnovabili.it) – Clima e GDO mettono in ginocchio l’ortofrutta con l’ossessione per frutta e verdura “perfette”. Il comparto ortofrutticolo deve vedersela prima con il cambiamento climatico, che cambia sempre più spesso forma e dimensioni dei prodotti e li rende più disomogenei. Poi con la miopia della legislazione vigente, anche a livello europeo, con standard che non rispecchiano i tempi e la variabilità della natura e anzi, li vuole incasellare a forza. Ultimo ostacolo, le pratiche della grande distribuzione organizzata, artefice di un sistema di mercato che usa calibri ed estetica per filtrare cosa può finire sui banchi del supermercato, e mette i bastoni tra le ruote ai piccoli produttori.
Lo racconta l’ultimo dossier di Terra! “Siamo alla frutta. Perché un cibo bello non è sempre buono per l’ambiente e l’agricoltura”, dove l’associazione ambientalista segue dal campo alla tavola il percorso di quattro filiere italiane della frutta – pere, arance, mele e kiwi – e ne denuncia storture e irrazionalità.
Lo stato di salute dell’ortofrutta italiana
Per iniziare questo viaggio tra i filari dell’ortofrutta italiana conviene partire da un dato: a livello mondiale, l’ONU stima che ogni anno il 33% del cibo va sprecato. Perché? Il problema gravita attorno al peso che i supermercati e la GDO hanno sull’intero comparto ortofrutticolo. “Quando andiamo a comprare la frutta, sullo scaffale del supermercato troveremo quasi sempre un prodotto all’apparenza perfetto: una cassetta di mele identiche le une alle altre, una vaschetta di kiwi delle stesse dimensioni, arance il cui diametro non può essere inferiore ai 53 mm”, spiegano il direttore di Terra! Fabio Ciconte e il giornalista Stefano Liberti nel rapporto.
A stabilire la “selezione all’ingresso” sul mercato di frutta e verdura, con disposizioni generali e specifiche, è il Regolamento UE 543/2011, poi modificato dal 428/2019. Regola forme, dimensioni, grado brix (la quantità di zuccheri) e aspetto estetico. “Quella che acquistiamo non è quindi semplice frutta, ma un prodotto che è stato selezionato geneticamente, coltivato, raccolto, passato al vaglio delle macchine calibratrici e, infine, diventato prodotto “Extra” o di “categoria I””. La frutta di categoria inferiore, la II, è tagliata fuori dal circuito e non riesce ad accedere al mercato del fresco se non con molta fatica. Di frequente viene venduta sui mercati ritenuti “inferiori”, come quelli dell’est Europa, o svenduta all’industria della trasformazione per farne succhi di frutta. Ovviamente a prezzi molto più bassi. Sempre più spesso, invece, alimenta la percentuale di spreco. Perché all’agricoltore non conviene neppure raccoglierla.
“Questa ossessione per la perfezione è incompatibile con le trasformazioni dell’agricoltura alle prese con il cambiamento climatico – dichiara Fabio Ciconte – Per questo chiediamo un intervento della politica a tutela del reddito degli agricoltori e un impegno della grande distribuzione ad acquistare anche la frutta fuori calibro”.
Filiere alla frutta
In Italia, nell’ultimo anno, il valore della produzione ortofrutticola è stato pari a 11,4 miliardi di euro, il 23,2% del totale della ricchezza generata dall’intero settore primario. Quasi la metà grazie alla produzione di frutta. Ma come stanno le filiere principali? Non se la passano molto bene, spiega nel dettaglio il rapporto di Terra! che ha indagato con un fitto lavoro sul campo cosa succede alle pere dell’Emilia-Romagna, alle arance siciliane, al kiwi nostrano.
Le pere emiliane vivono un tracollo che è frutto di una “tempesta perfetta”. Il calo delle superfici (persi 6.000 ettari in 15 anni) dipende molto dal cambiamento climatico: “l’andamento erratico del clima, con inverni troppo caldi e improvvise gelate primaverili influenza negativamente la fenologia delle piante e pregiudica il corretto andamento dell’allegagione, cioè la fase successiva alla fioritura, in cui il frutto comincia a formarsi. Le piante, in pratica, emergono dal risveglio vegetativo troppo precocemente e le gemme vengono poi “bruciate” dai freddi tardivi”. A cui si aggiunge l’aumento delle specie invasive e gli ostacoli fuori dal campo, cioè le pastoie regolamentari e i diktat della GDO.
Le arance forse attraversano una crisi anche peggiore. Quelle siciliane se la stanno vedendo con una riduzione in 20 anni da 3 mln di t a 2,6. Le cause? La diffusione del virus della tristeza, ma soprattutto la siccità che nella stagione 2020-21 ha portato allo sviluppo di frutti più piccoli. Qui si innesta l’irrazionalità – e lo strapotere – della GDO. Che non apprezza questo calibro ridotto, e ha inondato i banchi dei supermercati di arance importate dall’estero, specie dal mercato spagnolo. Una malattia è alla base del crollo verticale del kiwi, che ha perso 100.000 tonnellate solo negli ultimi 5 anni.
L’ortofrutta italiana riparta dalle mele
Chi invece riesce a resistere agli urti del cambiamento climatico e alle pratiche della GDO è la filiera della mela. Stabile per superficie e produzione – 2 mln di t, 53mila ettari – è stata capace di stabilire con la grande distribuzione un rapporto più equo, spiega il rapporto di Terra!. Soprattutto grazie alla sua capacità aggregativa.
Il rapporto fa l’esempio del consorzio Melinda, nel nord-est, che raccoglie 16 cooperative e ha saputo creare un marchio forte. Melinda gestisce l’intera commercializzazione dei produttori affiliati. La conservazione dei prodotti fino a 14 mesi è garantita dalle celle ipogee, dei veri frigoriferi naturali scavati nelle cavità della roccia Dolomia. E grazie al marchio, i produttori riescono a negoziare con la GDO da una posizione di forza. Una posizione che si è rivelata utile, al punto da convincere i distributori ad accettare mele di seconda e di terza categoria, danneggiate dalla grandine e di piccolo calibro. È l’esempio di Melasì, la “gemella difettosa” di Melinda, che presenta difetti estetici e che, nonostante questo, è riuscita ad arrivare nelle corsie dei supermercati.