Il nuovo rapporto di Nomisma sul post Covid-19. Per la ministra delle Politiche agricole Teresa Bellanova, l’agroalimentare sarà centrale nelle politiche del Recovery fund
di Tommaso Tetro
(Rinnovabili.it) – Il 62% delle aziende chiuderà il 2020 con una contrazione delle vendite, anche superiore al 15% per quasi un quarto di loro. E’ un allarme, questo, per l’industria alimentare lanciato nel nuovo rapporto ‘L’industria alimentare italiana oltre il Covid-19’ messo a punto da Nomisma per Centromarca e Ibc. I motivi della preoccupazione riguardano in particolare il ‘passaggio’, come un uragano sulle coste, del coronavirus: gli impatti sociali, economici, e naturalmente sanitari.
Per esempio gli effetti del lockdown sulla filiera degli hotel, ristoranti e caffetterie: un blocco di fatto su un pezzo del sistema alimentare italiano che vale di fatto il 34% dei consumi totali di cibo e bevande. E anche con uno sguardo più generale, i dati sul giro d’affari sono una conferma: meno 9,5% ad aprile rispetto allo stesso mese dell’anno scorso, meno 5,8% a maggio, e meno 1,1% sia a giugno che a luglio.
“Siamo impegnati affinché il sistema agroalimentare sia centrale nelle politiche di spesa del Recovery fund – mette in evidenza la ministra delle Politiche agricole Teresa Bellanova – sono risorse che non possono essere sprecate ma che devono essere capaci di creare qualità durevole, ricadute a lungo raggio sul sistema Paese e buona occupazione”; nei prossimi mesi “l’agricoltura e il sistema produttivo alimentare industriale non potranno che essere protagonisti. Da qui ai prossimi 3 anni si getteranno le basi per i prossimi 30 anni”. Per la filiera agroalimentare – prosegue Bellanova – “in questi mesi abbiamo già deciso interventi per oltre 2,5 miliardi, e abbiamo investito risorse importanti per la liquidità delle imprese e per l’accesso al credito. Abbiamo lavorato per garantire la più grande operazione di decontribuzione mai fatta nel settore agricolo per un valore di oltre 430 milioni di euro”.
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La filiera agroalimentare italiana esprime 1,3 milioni di imprese e 3,4 milioni di occupati, pari al 14% della forza lavoro nazionale; genera 140 miliardi di euro di valore aggiunto, pari al 9% del Pil nazionale, e arriva a pesare per il 9% sull’export grazie a 43 miliardi di euro di vendite sui mercati internazionali nel 2019. Il 40% degli occupati nell’industria alimentare in Italia ha meno di 40 anni; le donne sono il 35%. Nel pieno della crisi economica dell’ultimo decennio (2009-2019), il valore aggiunto prodotto dall’industria alimentare è cresciuto del 19% contro un 7% del totale manifatturiero, mentre l’export è aumentato dell’89% registrando la seconda maggior crescita (dopo la farmaceutica) tra i settori manifatturieri.
A livello territoriale, l’incidenza dell’industria alimentare su occupati e valore aggiunto del manifatturiero raggiunge percentuali doppie rispetto alla media nazionale in regioni come Campania, Puglia, Molise o addirittura triple in Calabria, Sardegna e Sicilia; cosa che dimostra come l’alimentare sostenga l’economia di molti territori, in particolare di quelli ritenuti più svantaggiati. La gran parte delle aziende alimentari italiane ha spesso un carattere artigianale, e una conduzione familiare.
La ricerca – che ha coinvolto 200 imprese italiane – ha evidenziato che il 42% degli esportatori parla di una contrazione sui mercati esteri e il 35% delle aziende ha timori per il futuro per una perdita di posizionamento dei propri prodotti a causa di un maggior protagonismo delle imprese locali. Poi, negli investimenti prevale la prudenza: prima dell’emergenza l’82% delle aziende aveva pianificato di farli nel corso dell’anno, ma la mancanza di liquidità e le difficoltà di accesso al credito, oltre alla congiuntura negativa, spingono ora il 38% delle imprese a rimodularli e a rinviarli. Il restante 31% vorrebbe mantenerli destinandoli in particolare all’acquisto di impianti e macchinari funzionali al ciclo produttivo (86%), di nuove tecnologie (46%) e a ricerca e sviluppo di nuovi prodotti (39%).
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L’industria alimentare italiana è arrivata a fine 2019 – viene spiegato nel rapporto – con una serie di importanti successi che ne hanno fatto la quinta potenza mondiale nell’export di cibo e bevande, dopo Stati Uniti, Germania, Paesi Bassi e Francia, la terza a livello Ue per valore aggiunto prodotto (dopo Germania e Francia) e la seconda per produttività (dopo la Francia). Il posizionamento medio del prezzo dei propri prodotti in giro per il mondo è tra i più alti, in particolare per alcune categorie tipiche del made in Italy come formaggi, olio extravergine di oliva, prodotti da forno e derivati del pomodoro.
“Le diverse modalità adottate nel mondo, nei tempi e nell’applicazione del lockdown, hanno determinato performance differenti nell’export dei nostri prodotti, penalizzando principalmente quelli venduti nel canale hotel, ristoranti, caffetteria – osserva Denis Pantini, responsabile agroalimentare di Nomisma – si spiegano così, per esempio, il meno 4% nell’export di vino e all’opposto il più 25% della pasta italiana o il meno 7,8% dell’export alimentare francese contro il più 2,7% di quello spagnolo”.