Nuova stima dell’impronta ecologica del cibo
(Rinnovabili.it) – Mangiare banane dell’Ecuador in Italia e grattugiare il Parmigiano Reggiano – non il “parmesan” – in un ristorante di New York genera il 6% delle emissioni globali di gas serra. Cioè il triplo di quando si pensava fino a oggi. Se fosse un paese con un territorio, degli abitanti e un governo che partecipa alle COP, il trasporto di alimenti troverebbe posto tra i grandi inquinatori, a metà strada fra Russia e India. La nuova stima dell’impronta ecologica del cibo arriva da uno studio dell’università di Sidney appena pubblicato su Nature Food.
“Se si considera l’intera catena di approvvigionamento alimentare a monte, le miglia alimentari globali corrispondono a circa 3,0 GtCO2e (3,5-7,5 volte più alte di quanto stimato in precedenza)”, spiegano gli autori. Questo indica che “il trasporto rappresenta circa il 19% delle emissioni totali del sistema alimentare (derivanti dal trasporto, dalla produzione e dal cambiamento di destinazione d’uso dei terreni)”.
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Non tutti gli alimenti sono uguali, così come non tutti i paesi hanno profili uguali quando si guarda l’impronta ecologica del cibo. I ricercatori australiani hanno calcolato che la fetta maggiore delle emissioni legate al cibo dipendono da frutta e ortaggi. “Il trasporto di merci a livello globale associato al consumo di frutta e verdura contribuisce al 36% delle emissioni di chilometri di cibo, quasi il doppio della quantità di gas serra rilasciati durante la loro produzione”, si legge nello studio.
Perché? Quello che fa lievitare l’impronta ecologica del cibo è l’uso di refrigeratori per il trasporto su lunga distanza e la richiesta di frutta e verdura fuori stagione. Questo gruppo di alimenti è responsabile di 1,06 GtCO2e l’anno, seguito da cereali e farina. La carne ha un’impronta ecologica pesantissima in fase di produzione (2,8 GtCO2e, cioè 7 volte più alta di quella della frutta e della verdura), ma le emissioni generate dal trasporto sono ridotte. Inoltre, i paesi con economie più avanzate sono responsabili per quasi la metà (il 46%) delle emissioni totali generate, ma pesano solo per il 12,5% sulla popolazione mondiale.
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A pesare nel conteggio non è soltanto il trasporto internazionale di alimenti. Anche quello all’interno dello stesso paese ha un ruolo. Anzi, è addirittura maggiore. Il commercio internazionale genera 1,7 GtCO2e l’anno, contro le 1,3 GtCO2e degli scambi interni.
“Prima del nostro studio, la maggior parte dell’attenzione nella ricerca sull’alimentazione sostenibile si è concentrata sulle elevate emissioni associate agli alimenti di origine animale, rispetto a quelli vegetali”, spiega David Raubenheimer, coautore della ricerca. “Il nostro studio dimostra che, oltre a orientarsi verso una dieta a base vegetale, mangiare localmente è l’ideale, soprattutto nei Paesi ricchi”.