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Future Food Institute, la sostenibilità è fatta anche di relazioni

Future Food Institute

di Isabella Ceccarini

(Rinnovabili.it) – Un paesaggio incantevole tra cielo e mare, una terra generosa di prodotti che sono una gioia per il palato, una popolazione calda e accogliente. Nel Castello di Pollica (Salerno), sede del Centro Studi Internazionale sulla Dieta Mediterranea “Angelo Vassallo”, Future Food Institute ambienta il Boot Camp “Dieta Mediterranea: uno stile di vita sano per un futuro sostenibile”. Il Castello di Pollica è anche la sede del Paideia Campus, un centro di formazione, co-progettazione e sperimentazione tra il Comune, Future Food Institute e Centro Studi Dieta Mediterranea. Nella patria della Dieta Mediterranea i Climate Shapers sono coinvolti nella progettazione di innovazioni e nuove strategie per facilitare il cammino verso la transizione verde. L’obiettivo è uno sviluppo sostenibile integrale che coinvolga tutti i segmenti della società. Si parte dal cibo e si arriva dovunque.

Motore e anima di questa rivoluzione gentile è Sara Roversi, imprenditrice e fondatrice di Future Food Institute. Una visionaria positiva e determinata che ama cucire relazioni e che un passo alla volta sta guidando i giovani, e non solo, a diventare artefici consapevoli di un cambiamento sostenibile.

Sara, Future Food Insitute è un ecosistema che mette insieme ambiti diversi: alimentazione, ambiente, formazione, cultura, turismo, territori, tradizioni… Qual è il valore di una visione integrale così complessa?

Questi ambiti sembrano diversi, ma in realtà non lo sono, ognuno è in relazione con gli altri. È il ruolo che gioca il cibo nella nostra vita: si entra in connessione con chi l’ha cucinato, chi l’ha coltivato, chi ha curato il suolo, le risorse, la ricetta storica che si tramanda. Il cibo è una delle cose che maggiormente ci rappresenta, attraverso il cibo esprimiamo la nostra identità. Il nostro modo di mangiare impatta sulla nostra salute e sull’ambiente. È complesso e affascinante parlare di cibo se vuoi andare a fondo e considerare le sue implicazioni economiche, sociali, geopolitiche.

Ci sono gastronomi formati per valorizzare quello che sta dietro al cibo; quando capisci questo, ogni pasto diventa l’opportunità di esplorare, imparare, creare connessioni. Quando ne capisci la potenza, usi il cibo come leva strategica, come strumento per connettere: hai un problema con qualcuno e lo inviti a cena, devi valorizzare un territorio e racconti una storia legata al cibo. È un linguaggio che arriva a tutti.

Qual è il settore prioritario per Future Food Institute?

Il nostro impegno è più forte nei settori dove c’è più bisogno di cambiamento. Lo sforzo più grande è aiutare la gente a cambiare mentalità. È un impegno intangibile, non puoi sapere quanto tempo occorrerà per far cambiare mindset a una comunità intera.

Occorre prima di tutto ascoltare, stabilire una relazione, parlare e convivere con le persone, è come tessere una tela. Faccio parte di una comunità, Weawing Lab, composta da persone che in tutto il mondo tessono tele nelle comunità. È un po’ quello che facciamo qui. Per me è un’esperienza di apprendimento quotidiano.

È talmente sfidante quello che stiamo facendo che qualcuno mi chiede “ma chi te lo fa fare?”. Potrei rispondere che la passione è il motore della mia vita. Sto imparando cose che nelle nostre città, nel nostro mondo quotidiano, non esistono: eppure, in qualche modo, tutte le aree disagiate hanno gli stessi problemi.

Progettare in loco fa capire meglio quali siano le reali esigenze delle persone e del territorio.

Spesso chi progetta l’innovazione lo fa da una scrivania ben illuminata in ufficio confortevole in un grattacielo, non progetta nei borghi, nelle aree interne. Vedere le cose dall’interno cambia le prospettive e aiuta a capire cosa serve davvero. Bisogna prima di tutto ricostruire le relazioni: come dice il poeta, scrittore e regista Franco Arminio – che si autodefinisce “paesologo” – il punto di partenza è costruire “cantieri della fiducia”.

In questi giorni qui c’è di tutto – innovazione, laboratori, riciclo della plastica, agricoltura bio-rigenerativa – e durante l’anno facciamo tantissimo su questi temi, ma sotto ci deve essere uno scheletro fatto da una comunità che permetta di tramandare le azioni nel tempo.

La pandemia ci ha dato l’opportunità di focalizzarci sulle “risorse dormienti”: culturali, naturali, umane… Dobbiamo mettere gli occhiali giusti per vederle. Chi vive qui è talmente scoraggiato che è circondato da patrimoni immensi che non è in grado di vedere e quindi di valorizzare. Chi viene qui rimane colpito così profondamente che chiede sempre “cosa posso fare, come posso aiutare?”. Questo percorso di apprendimento sta innescando processi positivi. Chi arriva dall’America trova molto cool che la gente coltivi come si faceva un tempo, si comincia a capire che qui c’è un patrimonio.

Per ognuno di noi è una grande occasione per apprendere da tutti. Insegnare non è solo demandato alla scuola o i professori; si apprende anche dalle nonne, dalle tradizioni, dell’ecosistema. Ti faccio un esempio. Abbiamo le api nella nostra azienda agricola; eppure qui c’è un apicoltore che ti spiega come funzionano il mondo e la natura analizzando la vita delle api. Un’ora con lui mi ha fatto rimettere in equilibrio tantissimi elementi della vita. Da trent’anni fa l’apicoltore in un modo tale che quasi l’offendo se gli chiedo se è biologico, lui è oltre il biologico. Ha fatto cambiare l’agricoltura di un’intera area geografica partendo dalle api con grande umiltà, è la sua missione di vita. Portare qui la gente da tutto il mondo genera un immenso processo educativo che vorremmo rendere più accessibile.

Per far decollare un territorio servono infrastrutture fisiche e tecnologiche che qui ancora stentano ad arrivare.

Il problema qui è proprio l’accesso. Ci sono degli amministratori che sono degli eroi, ma da soli non riescono a far fronte a tutte le sfide del territorio. Siamo convinti che le collaborazioni possano far crescere percorsi di cambiamento che non sai dove ti porteranno. Noi cerchiamo di facilitare queste “collisioni positive” tra valori e competenze: da ingredienti positivi difficilmente viene fuori qualcosa di brutto. Questo è un po’ il nostro ruolo, cercare di mettere in piedi un percorso che nasce da incontri positivi.

Il 22 aprile di quest’anno volevo essere a tutti i costi a Pollica per la maratona della Giornata della Terra delle Nazioni Unite e vivere l’evento con la comunità. È successo di tutto. Eravamo circa 30 da tutta Europa, si trasmetteva da ogni stanza, il Castello di Pollica sembrava una sede RAI. È venuto giù un uragano ed eravamo senza connessione, ma volevamo che la comunità partecipasse. Allora abbiamo pensato di fare in spiaggia la lezione per i bambini con le magliette “Climate Shapers”. Abbiamo fatto le dirette da qui con tutto il mondo per 24 ore, una maratona dalla capitale della Dieta Mediterranea con delle sfide strutturali enormi. La comunità ci portava cibo non-stop, hanno preparato perfino una torta a forma di mappamondo con tutte le tappe della maratona e la bandierina di Pollica.

Chi sono i Climate Shapers? Questi giovani riusciranno a guidare i sistemi alimentari verso la transizione verde?

I Climate Shapers sono di tutte le età: coinvolgere i giovani è essenziale, per me sono una fonte di ispirazione, ma ci sono anche gli anziani. Ritengo che siano una fonte inesauribile di saggezza e voglio che i giovani imparino a interagire con loro. Questo modello di interazione basato sulla gratitudine sicuramente è più facile da realizzare in una piccola comunità, è una contaminazione fondamentale. I finanziamenti di cui si dispone sono in gran parte dedicati ai giovani, ma io voglio mettere a sistema tutti questi grandi valori umani che abbiamo.

Il principio di Future Food Institute è che attraverso il cibo posso modellare una comunità, il clima, posso agire attraverso le mie scelte. Chiunque può dare un contributo attraverso il lavoro, la scuola, lo stare con gli amici. Non servono grandi soldi, basta dare il buon esempio alla propria comunità e trasmettere il valore di quello che fai. Tra i Climate Shapers ci sono docenti, amministratori delegati, ragazzi, agricoltori, persone che magari non hanno studiato ma si spendono per la loro comunità. Il digitale ha aiutato tanto in questo. La pandemia, incredibilmente, ci ha aiutato: abbiamo trasformato in digitale i nostri programmi e le nostre call raggiungono nello stesso momento persone di 20-30 paesi diversi.

Nel campo dell’alimentazione si confrontano due posizioni: tradizione e innovazione. Ma non sono due facce della stessa medaglia?

Certo! Quando è nato Future Food Institute, nel 2012-13, raccontavo a imprenditori del food le innovazioni nel settore come le proteine alternative, la carne in vitro, i sensori in agricoltura. Mi guardavano come se stessi dicendo eresie. Portai una startup canadese che faceva il ragù di grilli: volevano entrare nelle famiglie americane, dove non manca mai la Bolognese Sauce. Consideravo l’idea di questa startup una modalità di condivisione del cibo, invece venne visto malissimo. Non volevo portare a Bologna il ragù di grilli, ma ragionare su come valorizzare il nostro patrimonio. Avevo intercettato un’opportunità per trasmettere un valore e connettere innovazione e tradizione. Senza l’innovazione le tradizioni sono destinate a morire, dobbiamo sostenere le innovazioni che entrano nella tradizione e riescono a rinnovarla e traghettarla verso il futuro. Quindi per me le due cose vanno di pari passo, senza contare che le innovazioni di oggi sono tradizioni che hanno avuto successo perché hanno saputo rinnovarsi.

I sindaci di Pollica e Marina di Camerota hanno superato ogni individualismo a favore di un progetto comune per la valorizzazione del territorio e il turismo sostenibile. Qual è il ruolo di Future Food Institute?

 La nostra azione non può che essere sinergica con quella di questi uomini che sono dei veri eroi. Sono pochi quelli come loro, che sono la salvezza di questi territori e riescono a tradurre le idee in politiche. Qui la sostenibilità si traduce in un piano urbanistico. La scelta è lungimirante e molto coraggiosa: la zona è una meta turistica molto gettonata e i prezzi delle case sono astronomici. Negli ultimi 10 anni l’abbandono delle terre è arrivato al 50% e i sindaci hanno proibito nuove costruzioni a favore del recupero degli edifici esistenti e dei terreni che li circondano. Esortano a prendersi cura del territorio, dell’acqua, delle risorse che sono rimaste. Qui si fa un’agricoltura eroica, i terreni sono scoscesi come nell’Appennino.

Future Food Institute mette insieme queste relazioni per portare a cambiamenti profondi e, speriamo, persistenti. Non ci limitiamo a fare un evento. Andiamo nei territori a creare una comunità su progetti a lungo termine. Qui abbiamo trovato persone allineate con i nostri principi, attorno alla relazione cerchiamo di creare un valore condiviso.

Abbiamo cominciato a lavorare a questo progetto con un ricercatore che sta facendo la tesi di dottorato all’Università di Maastricht su un metodo di misurazione dell’impatto trasformativo di processi come quello che stiamo guidando noi. Questa metodologia permette di misurare l’impatto su tre dimensioni: profondità (quanto incide sul territorio), persistenza nel tempo (quante generazioni sono coinvolte) ed espansione (comune, provincia, regione). Sto raccogliendo dati su quello che facciamo per misurare l’impatto trasformativo delle cose che stanno nascendo attraverso questo percorso e vedere quanto dura nel tempo. Sono tempi lunghi, certamente non sono quelli di una rendicontazione.

“Cantieri della fiducia” contro “scoraggiatori militanti”. Il progetto Pollica 2050 è anche questo?

Ho preso in prestito queste definizioni da Franco Arminio. Purtroppo qui manca la fiducia e si pensa che nulla potrà cambiare, ma è proprio su questo che vogliamo lavorare, per me tutto è possibile. Bisogna ricostruire il rapporto di fiducia tra vicini. I sindaci di Pollica e Marina di Camerota vogliono lavorare insieme per farcela, si stimano. Qui manca il concetto di gratitudine per le meraviglie del territorio, ci si lamenta molto. La gratitudine invece è l’elemento fondativo dei nostri programmi educativi: i ragazzi che sono venuti qui si sono allenati nella pratica della gratitudine. Ho spiegato ai ragazzi la differenza tra la città e il paese. In paese la relazione tra il tuo umore e la piazza è immediata: sorridi alle persone e loro ti sorrideranno, è un effetto a catena di positività, siamo come degli specchi.

Papa Francesco ha parlato di ecologia integrale e dell’impossibilità di vivere sani in un mondo malato. Il Boot Camp in cosa consiste? È un attivismo concreto per salvare il Pianeta?

È attivismo concreto e momento di riflessione. Troppo spesso siamo presi da un movimentismo che ci impedisce di fermarci a riflettere sul perché delle cose. L’ecologia integrale non è altro che il modo in cui noi concepiamo il cibo: parlando di cibo e futuro del cibo dobbiamo avere presente la dimensione economica, politica, sociale, umana, culturale e ambientale.

L’ecologia integrale ci fa capire che tutto è connesso, è un modo per far comprendere che spesso si combatte con attivismo cieco, guidati da grandi slogan che ti fanno perdere di vista il significato e gli effetti collaterali delle battaglie. Un esempio è la guerra alla plastica: giustissima, ma spesso le affermazioni incoerenti finiscono per guidare il consumatore. Se chiedo al consumatore cosa preferisce per il latte tra la confezione in vetro, tetrapack o plastica, risponderà vetro. In realtà, la carbon footprint della bottiglia di vetro è superiore.

Il problema non è la plastica in sé, quanto l’inciviltà di lasciarla in giro o buttarla in mare. Stimolare un approccio integrale all’ecologia è fondamentale per riflettere e prendere le decisioni giuste, è successo anche a noi di sbagliare. È un problema complesso, e la complessità richiede tempo.

Siamo a Pollica, capitale della Dieta Mediterranea che è stata dichiarata patrimonio immateriale dell’Unesco undici anni fa. Qual è il suo valore? Qual è il suo impatto sui sistemi alimentari?

L’impatto c’è stato ma è ancora troppo basso. Sono convinta che potremmo trasformare i sistemi alimentari portando nelle decisioni anche le dimensioni culturali di cui abbiamo parlato.

Il riconoscimento dell’Unesco non è per le ricette o gli ingredienti, ma per lo stile di vita: tradizioni, metodi di produzione, stagionalità dei prodotti, varietà e biodiversità, convivialità. Oggi ci troviamo davanti a chi non capisce tutto questo e vuole obbligare il mondo ad adottare una dieta uguale per tutti decidendo che è più sostenibile.

Se dalla dimensione del cibo togliamo la cultura e l’identità rischiamo di uccidere anche la dimensione sociale delle comunità, perché il cibo è parte di tutto questo: attraverso il cibo puoi esplorare la dimensione culturale, artistica e storica di una comunità.

Non possiamo pensare di mangiare solo per nutrire il corpo. La condivisione del cibo è un nutrimento anche per l’anima e le relazioni. La dieta mediterranea ha ancora un’infinità di potenzialità che vanno esplorate, non possiamo limitarci a enunciazioni generali buone per tutti. Esportare gli ingredienti della dieta mediterranea in Burkina Faso non sarà mai sostenibile, esportiamo invece il concetto di Dieta Mediterranea, il pensiero che c’è dietro, e ne deriverà un cambiamento positivo per la società.

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