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Direttiva UE su emissioni, gli allevamenti come le industrie?

Foto di Leon Ephraïm su Unsplash

di Isabella Ceccarini

Numerose proteste hanno accolto la direttiva della Commissione Europea sulle emissioni industriali, in cui sono inserite quelle generate dagli allevamenti.

La posizione negoziale del Consiglio dei Ministri dell’Ambiente dell’UE è stata approvata, nonostante il voto contrario di quello italiano Gilberto Pichetto Fratin.

Le associazioni di agricoltori protestano

Le perplessità non sono solo italiane. Le organizzazioni di agricoltori di vari paesi europei – Belgio, Repubblica Ceca, Germania, Francia, Polonia, Portogallo, Slovacchia, Spagna e Italia (firmataria è Coldiretti) – hanno inviato una lettera aperta ai ministri dell’Agricoltura per manifestare la loro opposizione alla proposta della Commissione di revisione della Direttiva sulle Emissioni Industriali (IED) che equipara le emissioni zootecniche a quelle industriali.

Nei Paesi Bassi, considerati la stalla d’Europa – 100 milioni di animali da allevamento per 18 milioni di abitanti – gli allevatori sono sul piede di guerra. Alle ultime elezioni provinciali il Boer Burger Beweging(movimento civico dei contadini), ha preso il 19% dei voti.

Secondo la Commissione, fissare limiti più rigorosi serve a proteggere la salute dell’uomo e dell’ambiente imponendo di ridurre le emissioni nocive provenienti dagli impianti industriali e dagli allevamenti intensivi che inquinano l’aria e l’acqua.

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Flessibilità per adeguarsi alla nuova normativa

La direttiva sulle emissioni industriali disciplina l’inquinamento da ossido di azoto, ammoniaca, mercurio, metano e biossido di carbonio generato dagli impianti industriali e dalle grandi aziende zootecniche.

Le aziende agricole estensive dovrebbero essere escluse dalla nuova normativa, che sarà applicata progressivamente a partire dalle aziende più grandi.

La direttiva prevede per gli Stati membri una flessibilità nell’adeguarsi alla nuova normativa e una deroga ai valori limite di emissioni per scongiurare, in caso di crisi, il necessario approvvigionamento di energia o di altre risorse.

In ogni caso, secondo la Commissione, l’industria e le aziende zootecniche dovranno investire nella riduzione dell’inquinamento.

Probabili impatti negativi sull’ambiente?

Le aziende agricole e zootecniche sono di diverso avviso: equiparare gli allevamenti, anche di piccole/medie dimensioni, alle attività industriali, appare ingiusto e fuorviante rispetto al ruolo che essi svolgono nell’equilibrio ambientale e nella sicurezza alimentare in Europa.

Ritengono inoltre che l’applicazione della nuova direttiva potrebbe avere addirittura impatti negativi sull’ambiente: ridurre le aree a pascolo comporterebbe una perdita di biodiversità, alterazione dei paesaggi, minaccia alla vitalità delle aree rurali.

Come spiega Coldiretti, si dovrebbe eliminare il settore bovino dalla direttiva e riconoscere invece gli sforzi fatti dagli allevatori per rendere le loro aziende più sostenibili.

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Valorizzare i risultati raggiunti dal sistema agricolo e zootecnico

Sulla stessa linea si esprime anche Assocarni, che in Confindustria rappresenta la filiera bovina, equina e ovina, ed è assolutamente contraria a includere nella direttiva IED gli allevamenti bovini, assimilandoli alle industrie fossili: «L’Europa ha una grande opportunità: usare il Green Deal per valorizzare i risultati raggiunti dal suo sistema agricolo e zootecnico.

Sarebbe imperdonabile sprecare questo vantaggio. Il futuro è nell’innovazione e nella tecnologia, per produrre di più con meno risorse.

Il sistema zootecnico è pronto a fare la sua parte: chiediamo alle istituzioni europee di coinvolgere nel processo decisionale tutti i professionisti e gli esperti del settore che – senza ideologie, ma forti delle proprie competenze – possano facilitare la transizione verso un equilibrio tra sostenibilità ambientale ed economica».

Un argine allo spopolamento e al degrado delle aree interne

Gli allevamenti bovini italiani, che presidiano il 40% del territorio rurale, sono un argine allo spopolamento e al degrado delle aree interne, oltre a contrastare il dissesto idrogeologico.

Impensabile assimilarlo alle industrie fossili, sostiene il presidente di Assocarni, François Tomei, che porta i dati ISPRA del 2020 a sostegno della sua posizione: «Le emissioni dell’allevamento bovino italiano pesano appena il 5% del totale (rispetto alla media mondiale del 14,5% – dati FAO), a cui va aggiunto l’aumento di sequestro di carbonio compiuto dalle aree nelle quali si pratica l’allevamento.

Inoltre, il carbonio del metano emesso dalle fermentazioni ruminali risiede in atmosfera appena 11,5 anni, per essere poi riassorbito dalle piante in un ciclo biologico, rispetto all’origine fossile del carbonio emesso dai combustibili delle imprese industriali, che al contrario si accumula nell’atmosfera per centinaia di anni provocandone il riscaldamento.

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Sul fronte della sovranità alimentare, qualora si decidesse di includere il settore bovino nella direttiva IED la competitività della filiera bovina italiana – già deficitaria per il 49% – sarebbe ulteriormente compromessa da un aumento delle importazioni di carne dai Paesi terzi».

Nel caso delle importazioni, ricordiamo che le normative europee, e quelle italiane in particolare, sono estremamente severe; non si può dire altrettanto dei paesi extra-europei, con inevitabili ricadute sulla salute dei consumatori.

Sottovalutato l’impatto sul comparto

Dello stesso avviso Massimiliano Giansanti, presidente di Confagricoltura, che commenta l’esito della votazione alla proposta svedese di includere gli allevamenti nella direttiva IED: «Il voto al Consiglio Ambiente non va nella direzione auspicata.

Lavoreremo insieme al Parlamento Europeo e al Copa-Cogeca affinché, nella fase di discussione, riesca a modificare l’orientamento generale e arrivare a una decisione finale favorevole per le imprese e per il settore degli allevamenti».

Giansanti sottolinea inoltre l’insostenibilità dell’applicazione della direttiva sugli allevamenti, già fortemente provati da numerose difficoltà e aggiunge che «è stato sottovalutato l’impatto sul comparto.

Questa decisione è un disastro per la zootecnia, che viene assoggettata a una serie di impegni burocratici e a limitazioni operative che rischiano di compromettere la produttività delle imprese agricole».

Un settore strategico per l’UE

Duro il commento di Copa-Cogeca – che rappresenta gli agricoltori e le cooperative agricole dell’Unione Europea impegnandosi per un’agricoltura sostenibile, innovativa e competitiva – in difesa di quello che ritiene un settore strategico per l’UE. «Considerare centinaia di migliaia di aziende agricole familiari sotto l’etichetta “impianti industriali” ha mostrato il pregiudizio inaccettabile di questa proposta.

Inoltre, nelle ultime settimane, le cifre a sostegno della valutazione d’impatto sulla soglia proposta dalla Commissione Europea sono state messe in discussione. Lo stesso commissario europeo per l’Agricoltura ha riconosciuto le carenze di questo studio in una recente audizione».

Tommaso Battista, presidente di Copagri (Confederazione Produttori Agricoli), afferma che «il primario è l’unico settore produttivo che oltre a generare gas serra, contribuisce sensibilmente al loro assorbimento.

Sono sempre più numerosi gli autorevoli studi scientifici e accademici dai quali emerge con chiarezza come il contributo della zootecnia in materia di inquinamento sia sensibilmente più contenuto di quanto si pensi, tanto che nel decennio 2010-2020 il comparto non solo abbia notevolmente ridotto le proprie emissioni, ma sia addirittura andato in negativo, finendo cioè per sottrarne dall’atmosfera ben 49 milioni di tonnellate».

Battista rileva anche il fatto che «l’Italia contribuisce ad appena l’1% delle emissioni mondiali di anidride carbonica, pari complessivamente a circa 400mila tonnellate; di questa cifra, appena il 5% deriva dall’attività zootecnica e, in generale, dal Primario, con una incidenza sensibilmente inferiore alla media comunitaria dell’11-12%».

Dati superati

Effettivamente i dati utilizzati come base per la proposta della Commissione sono superati: lo stesso commissario ha dovuto riconoscere che la bozza della direttiva è stata preparata con i dati del 2016 perché non erano disponibili dati più recenti e quindi andrà rivista sulla base di dati più recenti.

È opportuno precisare che una direttiva entra in vigore dopo circa due anni: quindi un accordo del 2023 entra in vigore nel 2025.

Questo significa che i dati utilizzati saranno vecchi di quasi dieci anni e, come ha sottolineato Copa-Cogeca, «l’approccio basato sulle soglie proposto inizialmente dalla Commissione europea è principalmente politico, punitivo e avrà conseguenze impreviste se applicato in azienda».

L’associazione europea auspica quindi che i responsabili politici dell’UE considerino questi dati per rivalutare la proposta della Commissione.

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