Fyrwald, ad Syngenta: “La gente muore di fame in Africa perché noi mangiamo sempre più prodotti biologici”
(Rinnovabili.it) – A causa della guerra il raccolto in Ucraina può calare di un terzo e c’è molta incertezza sulla capacità di esportarlo. Idem per la Russia sotto sanzioni. Ai mercati l’incertezza non piace e così a marzo i prezzi dei cereali erano già saliti di quasi il 20%. Per chi è più dipendente da questi fornitori l’incremento è maggiore: l’Africa Development Bank a fine aprile stimava un rincaro medio del grano del 60% per il continente. Dati come questi fanno temere a molti una crisi alimentare di grandi proporzioni. E il coro di chi invoca soluzioni drastiche motivandole con il fattore emergenza cresce di giorno in giorno.
Il colpevole? L’agricoltura biologica
In questo coro l’ultima voce è quella di Erik Fyrwald, ad di Syngenta. Per il numero 1 di uno dei principali colossi mondiali dell’agrochimica la soluzione alla crisi alimentare – che per lui è certa – è una sola: dire basta all’agricoltura biologica. Il biologico, secondo l’ad della multinazionale a guida cinese, “ruba” terra preziosa in tempo di guerra. Avrebbe una resa per ettaro minore dell’agricoltura intensiva (anche del 50%, dice Fyrwald), che è invece la soluzione ottimale per aumentare la produzione ed evitare carenze sui mercati.
Invece di coltivare a tutto spiano con metodi intensivi, i paesi più ricchi si ostinano a destinare una buona quota della propria terra all’agricoltura biologica, lamenta Fyrwald. “La conseguenza indiretta è che la gente muore di fame in Africa perché noi mangiamo sempre più prodotti biologici”, conclude il ragionamento il boss di Syngenta. Nel mondo alla rovescia del big dell’agrochimica, tra l’altro, il biologico “fa male al clima” perché richiede l’aratura dei campi e quindi aumenta le emissioni di CO2. Chi sospetta che dietro questo attacco al biologico ci sia l’interesse economico di un’azienda che produce pesticidi e sementi OGM va fuori bersaglio, si difende Fyrwald: “Non c’entra nulla”.
“E’ suggestivo che il CEO di una delle 3 più grandi multinazionali del mondo in campo sementiero e agrochimico attacchi la transizione ecologica del settore agricolo”, dichiara a Rinnovabili.it Stefano Mori, coordinatore del Centro Internazionale Crocevia, Ong che supporta i movimenti contadini di tutto il mondo. “Il ruolo coloniale e predatorio svolto dalle multinazionali delle sementi nei confronti dell’agricoltura familiare nel Sud globale è la prima causa dei problemi di fame e malnutrizione, dato che rendono dipendenti i contadini dalle sementi industriali irriproducibili”. La soluzione è un’altra. Per Crocevia “invece di tentare ad ogni costo di integrare questi paesi nel mercato globale del cibo, si dovrebbe rafforzare la sovranità alimentare di questi paesi attraverso un più facile accesso alle risorse genetiche che permettono loro di sviluppare produzioni sostenibili per il loro mercato locale, al riparo dalle importazioni a basso costo e dagli accordi di libero scambio che mettono fuori legge le pratiche contadine”.
Crisi alimentare? No, della zootecnia
Fyrwald è in buona compagnia in Europa. Da più parti a Bruxelles si prova a sfruttare la copertura della guerra in Ucraina – e lo spauracchio di una crisi alimentare – per dare il colpo di grazia a una politica agricola comune già moribonda. C’è anche chi propone proprio di “rivoltare la PAC come un calzino” (copyright di Guglielmo Golinelli, deputato in quota Lega).
L’ansia di aumentare la produzione fa leva sulla paura che il cibo inizi a scarseggiare sulle tavole d’Europa. E di reazione emotiva in reazione emotiva cerca di farsi strada nelle politiche alimentari dei Ventisette e dell’UE. La realtà come accade spesso è un po’ diversa. Una carenza di cereali e oli vegetali non ci lascerebbe con la pancia vuota ma sarebbe un problema per la zootecnia. Perché è vero che Russia e Ucraina, da sole, coprono il 30% del commercio globale di grano tenero, il 32% di orzo, il 17% di mais e oltre il 50% di olio di girasole, semi e farine di semi di girasole. Ma c’è un ma.
“E’ bene chiarire come questi vengono utilizzati a livello europeo: il 53% dei cereali prodotti e importati in Ue sono destinati ad alimentare gli animali negli allevamenti europei, per la maggior parte intensivi, mentre solo il 19% è destinato al consumo umano”, spiegava pochi giorni fa uno studio di Terra!, Greenpeace, Fairwatch e LIPU. “Oltre il 70% dei terreni agricoli europei è destinato all’alimentazione animale. In Italia il 58% dei seminativi è destinato ad alimentare animali, non persone”.
Transizione ecologica missing in action
Eppure a livello UE i picconatori delle lobby dell’agribusiness hanno già scalfito l’architettura della PAC, visto che Bruxelles ha tolto per il 2022 l’obbligo di greening per gli agricoltori. Salta, cioè, il mantenimento di spazi non produttivi dedicati alla biodiversità o la coltivazione di colture azotofissatrici. E l’assalto alla PAC non finisce qua: sotto attacco sono molte altre misure inserite a fatica per tutelare la biodiversità (e quindi la resilienza dei suoli).
C’è poi da discutere anche sul ruolo specifico della guerra in Ucraina nella crisi alimentare in corso. “I prezzi dei prodotti alimentari sono già in aumento da tempo a causa di diversi fattori, tra cui la pandemia di COVID, le interruzioni delle catene di approvvigionamento, l’aumento dei prezzi dell’energia e gli eventi meteorologici estremi, ai quali si aggiungono fenomeni speculativi”, sottolinea lo studio di Terra! e delle altre ong.
Ed è proprio l’aspetto della speculazione finanziaria uno dei fattori principali che – non troppo stranamente – sono quasi del tutto assenti dal dibattito pubblico. Mentre i sostenitori degli ogm e delle new breeding techniques da settimane provano a ribaltare il no europeo agli organismi geneticamente modificati. Intanto, in Italia, la superficie coltivata si riduce costantemente da anni. Il motivo principale? Le piccole aziende chiudono perché non ce la fanno, il mercato garantisce remunerazioni troppo basse. Ma di questa crisi, forse la vera crisi alimentare, si parla meno e soprattutto in tempo di guerra. Anche se non è un fenomeno solo italiano, ma europeo: tra 2005 e 2016 in tutta Europa hanno chiuso i battenti 4 milioni di aziende agricole, quasi il 30%. (lm)