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Crea, i costi economici della guerra per le aziende agricole

Un Rapporto del Crea analizza gli effetti della guerra in Ucraina sui costi e sui risultati economici delle aziende agricole italiane. L’agricoltura è energivora: la turbolenza dei prezzi dell’energia ha effetti pesanti che stanno sconvolgendo anche i mercati agricoli, con ripercussioni che si protrarranno a lungo. I settori più penalizzati sono seminativi, cerealicoltura, ortofloricoltura e bovini da latte

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via Pixabay

di Isabella Ceccarini

Quanto costa la guerra in Ucraina alle aziende agricole? Moltissimo, come spiega con chiarezza il Crea (Consiglio per la Ricerca in agricoltura e l’analisi dell’Economia Agraria) nel suo Rapporto Guerra in Ucraina: gli effetti sui costi e sui risultati economici delle aziende agricole italiane.

Il Rapporto ha elaborato i dati aziendali rilevati dalla rete RICA (Rete d’Informazione Contabile Agricola, gestita dal CREA Politiche e Bioeconomia, fonte ufficiale UE, che monitora il reddito e le attività delle imprese).

Perché il prezzo dell’energia incide sui prezzi agricoli

La turbolenza dei prezzi dell’energia ha effetti che impattano direttamente sull’agricoltura e stanno sconvolgendo i mercati con ripercussioni che si protrarranno a lungo.

Al netto di ogni speculazione, c’è un dato molto semplice: l’Ucraina non può fare le semine primaverili e quindi non potrà raccogliere, pertanto le conseguenze negative per le imprese agricole dell’Unione Europea – e dell’Italia in particolare – si vedranno ancora nel medio e lungo periodo.

Perché l’invasione russa dell’Ucraina ha sconvolto i mercati energetici e agricoli mondiali? Poche cifre lo spiegano in modo efficace: la Russia è un importante esportatore di petrolio e produce circa il 23% del gas naturale mondiale, che l’Unione Europea acquista per circa il 40% del suo fabbisogno.

L’agricoltura è energivora

L’agricoltura in ogni segmento della sua filiera è fortemente energivora: dalla produzione al trasporto, dalla trasformazione allo stoccaggio fino alla vendita ha bisogno di energia.

Russia e Ucraina rappresentano circa il 30% del commercio mondiale di frumento e orzo, il 17% del mais e oltre il 50% dell’olio di girasole, oltre a una quota significativa di soia non Ogm con cui si producono i mangimi.

L’Italia, in particolare, importa il 64% di grano tenero (usato per la produzione di pane e biscotti) e il 53% di mais per l’alimentazione del bestiame (dati Coldiretti).

Lo stesso discorso vale per i fertilizzanti. I prezzi erano già alti a fine 2021, le proiezioni (che si basano sulla prima decade di marzo) prevedono aumenti fino al 200% su base annua.

Per le sei voci di costo considerate dal Rapporto Crea (fertilizzanti, mangimi, gasolio, sementi/piantine, fitosanitari, noleggi passivi) l’impatto medio aziendale supera i 15.700 euro di aumento, per raggiungere i 99.000 euro nel caso delle aziende che allevano granivori.

Restano ovviamente le differenze a seconda della produzione agricola e della localizzazione geografica.

Un’azienda su dieci non potrà coprire i costi di produzione

I settori più penalizzati sono seminativi, cerealicoltura e ortofloricoltura, con un incremento dei costi correnti del 65-70% e i bovini da latte (+57%).

Gli aumenti medi nazionali sono del 54%: è evidente che questi numeri mettono in pericolo la sostenibilità economica delle aziende agricole, specie se marginali.

Spesso i prezzi di acquisto dei prodotti agricoli non sono adeguatamente riconosciuti ai produttori. Questo significa che un’azienda agricola su dieci non sarà in grado di far fronte alle spese necessarie per continuare la produzione.

Per dare un’idea, lo scenario prospettato dal Crea stima che il 30% delle aziende agricole potrebbe avere un reddito netto negativo (prima della crisi attuale era il 7%).

La crisi riguarda l’intera filiera produttiva

È opportuno precisare che il reddito netto negativo era già presente in una minima parte delle aziende agricole, ma l’attuale crisi internazionale aggrava il fenomeno.

Ovvero, nel medio periodo queste aziende agricole dovrebbe sospendere l’attività o addirittura chiudere definitivamente perché operando con reddito netto negativo non sarebbero più in grado di coprire i costi.

Una situazione in cui si troverebbe circa un quarto delle aziende cerealicole e che allevano granivori e il 15% delle aziende a seminativi e ortofloricole.

In questa contingenza, le aziende agricole non possono fare investimenti, vedono assottigliarsi il capitale, peggiorare lo stato delle strutture produttive e venire a mancare le materie prime per la coltivazione (sementi e fertilizzanti).

La fragilità delle piccole aziende agricole

Va detto, per correttezza di analisi, che il Rapporto Crea non può tenere conto di eventuali adattamenti strutturali e organizzativi delle aziende agricole che potrebbero ridurre l’impatto negativo dei prezzi.

Ad esempio, le piccole aziende agricole potrebbero vendere i loro prodotti a prezzi più alti, ma difficilmente questi sarebbero in grado di bilanciare le perdite ingenti dovute alle mutate condizioni del mercato internazionale.

Nel generale clima di incertezza è fondamentale che le aziende agricole possano disporre di informazioni attendibili utili a fare scelte nel breve periodo e cogliere le eventuali opportunità che dovessero presentarsi.

Le piccole aziende agricole sono evidentemente le più vulnerabili, come evidenzia il Rapporto Crea, ma è condizionante anche la retribuzione non adeguata percepita dai produttori.

Un esempio viene dalla filiera lattiero-casearia, dove gli imprenditori stanno a prezzi inferiori ai costi di produzione.

Una situazione che mette a rischio l’economia, l’occupazione e l’approvvigionamento alimentare dell’Italia (ricordiamo che la nostra dipendenza dall’estero è il 16% del fabbisogno).

Granarolo alza il prezzo al litro riconosciuto ai produttori di latte

In questi giorni è stata molto apprezzata la decisione di Granarolo che ha deciso di riconoscere agli allevatori un prezzo minimo alla stalla di 48 centesimi al litro per il latte, cifra a cui si aggiungono Iva e premio di qualità.

«Una scelta responsabile che ci auguriamo venga seguita da tutti i grandi gruppi industriali e cooperativi per garantire la sopravvivenza dell’allevamento italiano» è il commento di Coldiretti.

Inoltre, «la stabilità della rete zootecnica italiana ha un’importanza che non riguarda solo l’economia nazionale ma ha una rilevanza sociale e ambientale perché quando una stalla chiude si perde un intero sistema fatto di animali, di prati per il foraggio, di formaggi tipici e soprattutto di persone impegnate a combattere, spesso da intere generazioni, lo spopolamento e il degrado dei territori soprattutto in zone svantaggiate».

«L’adeguamento dei compensi salva dalla chiusura 26mila stalle da latte e 100mila posti di lavoro, oltre ad alimentare la filiera lattiero-casearia che vale oltre 16 miliardi di euro» afferma Confagricoltura, che auspica a sua volta che altri gruppi industriali seguano l’esempio di Granarolo.