Come ha messo in evidenza Papa Francesco, siamo di fronte a una «crisi complessa che è insieme sociale e ambientale» di cui il cibo è parte integrante. Il convegno “Food Systems Summit 2021: risultati e prospettive per l’Italia” organizzato dall’ASviS ha avviato una riflessione sui nostri stili di vita e in particolare sul Goal 2 dell’Agenda 2030
di Isabella Ceccarini
(Rinnovabili.it) – «Scartare cibo significa scartare persone» ha twittato Papa Francesco. Quando parla di «ecologia integrale» intende dire che siamo di fronte a una «crisi complessa che è insieme sociale e ambientale» di cui il cibo è una parte essenziale.
Cresce in tutto il mondo l’impegno a realizzare modelli agroalimentari sostenibili di produzione e di consumo: a livello europeo con la strategia Farm to Fork, a livello globale con l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite.
Il Food Systems Summit indetto dall’Onu ha messo al centro delle politiche internazionali l’urgenza di trasformare i sistemi alimentari per il raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Agenda 2030. Nel convegno “Food Systems Summit 2021: risultati e prospettive per l’Italia” l’ASviS ha avviato una riflessione sui nostri stili di vita e in particolare sul Goal 2 (Sconfiggere la fame) dell’Agenda 2030.
«Il Goal 2 è multidimensionale» ha esordito Marcella Mallen, presidente dell’Asvis: all’obiettivo di sconfiggere la fame si accompagnano quelli di migliorare la nutrizione e trasformare la filiera agroalimentare.
La relazione che unisce tutti gli aspetti della vita sulla Terra
Il cibo è in stretta relazione con i cambiamenti climatici, anzi potremmo dire che sono legati in una sorta di spirale. La produzione di cibo genera circa un terzo dei gas a effetto serra, questi scatenano cambiamenti climatici che si manifestano con eventi estremi sempre più frequenti che incidono sulla produzione di cibo. Possiamo definire “circolare” anche il rapporto tra cibo e salute: il cibo e le pratiche agricole impattano sulla salute, che a sua volta dipende da scelte alimentari sane.
Nel 2050 sul Pianeta ci saranno quasi dieci miliardi di persone; ovviamente dovranno mangiare, quindi si verificherà una crescente pressione sulla produzione di cibo per la quale si stima un aumento del 70%. Ma il legame tra cibo, ambiente e fattore demografico non si esaurisce qui: più del 70% delle persone abiterà nei grandi centri urbani, provocando un cambiamento nella domanda che avrà come conseguenza la necessità di moltiplicare trasporti, deposito e conservazione del cibo.
«Più di 800 milioni di persone nel mondo soffrono la fame. Il paradosso è che non hanno fame perché non c’è abbastanza cibo per tutti ma perché sono distorti i rapporti di forza all’interno delle filiere», ha ricordato Mallen: ai produttori va una quota minima, l’accesso al mercato è negato a molti, la mancanza di infrastrutture genera una enorme perdita di cibo (vuoi per la difficoltà dei trasporti, vuoi per l’impossibilità di conservare correttamente le derrate).
L’agricoltura familiare produce un terzo del cibo del mondo
Non identifichiamo le produzioni agricole con le grandi multinazionali: l’agricoltura cosiddetta “familiare”, produce un terzo del cibo del mondo ma sono proprio questi piccoli produttori l’anello debole della catena, i più esposti ai danni provocati dal cambiamento climatico e quelli che hanno maggiore bisogno di sostegni per adottare sistemi produttivi innovativi e quindi più efficienti e sostenibili.
«Dietro a un buon cibo c’è una buona agricoltura, che oggi è sinonimo di ricerca e innovazione», ha spiegato Stefania De Pascale, vice presidente del CREA. La filiera agroalimentare è importante, ma nello stesso tempo è fragile e sensibile ai temi della sostenibilità. «La conoscenza ci rende padroni delle nostre scelte»: i consumatori informati saranno consapevoli delle conseguenze positive di un’alimentazione sana, per loro stessi e per l’ambiente.
Passiamo dalle parole ai fatti
«Le imprese agroalimentari sono parte del problema, ma possono essere parte della soluzione», ha spiegato Angelo Riccaboni, docente di Economia aziendale nell’Università di Siena e co-coordinatore del Gruppo di lavoro ASviS sul Goal 2. «Di parole se ne sono spese tante, è il momento di passare ai fatti».
In questi mesi si è compreso che non va bene l’approccio one size fits all. Le diete sono collegate ai territori, quindi valorizzare le produzioni locali fa bene alla salute e all’ambiente. Si è capovolta la chiave di lettura: prima la globalizzazione doveva uniformare tutto, oggi il modello italiano – fatto di piccole aziende, di carattere familiare, legate al territorio – può diventare il punto riferimento per altri Paesi.
«Le nostre imprese agroalimentari sono piccole, nelle aree interne sono piccolissime: il nodo è che chiediamo loro di essere sostenibili ma nello stesso tempo bisogna far sì che diventino redditizie e garantiscano il giusto reddito ai produttori». L’immagine degli agricoltori custodi del territorio è molto romantica, ma assolutamente improponibile. Mission impossible? No, a patto di capire che «la chiave del cambiamento è nell’innovazione».
Il Gruppo di lavoro sul Goal 2 è riuscito a mettere d’accordo su 10 impegni tutte le associazioni che rappresentano l’agroalimentare. Vediamone i punti centrali: innovazione come fulcro di tutti gli impegni; promozione della dieta mediterranea, sostenibile, attenta ai territori e alla valorizzazione delle tipicità; miglioramento dei processi produttivi perché diventino sostenibili.
Bisogna aiutare le imprese ad autovalutarsi per capire se sono effettivamente allineate agli SDGs: è più semplice per le grandi imprese, le piccole lo considerano una minaccia alla loro sopravvivenza. Sta a noi spiegare che anche per loro la sostenibilità può essere un’opportunità di sviluppo.
Dai giovani viene la spinta al cambiamento
«Come si può pensare di rivoluzionare un sistema se non si parte dal basso, puntando convintamente sui giovani?». Il Conseil Européen des Jeunes Agriculteurs (Ceja) riunisce 33 associazioni di giovani agricoltori da 23 Stati membri, un totale di 2milioni di giovani agricoltori. Un numero interessante, ma ancora insufficiente, ha avvertito la presidente di Ceja, Diana Lenzi sottolineando come in Europa ci sia un problema di ricambio generazionale nel settore agroalimentare.
I giovani sanno riconoscere il potenziale dell’innovazione tecnologica e sono più creativi; molti tornano alla campagna dopo lauree, master e altri lavori. La voglia di cambiare è la loro forza. Tuttavia, nulla si improvvisa, anche per le professioni dell’agroalimentare serve formazione. «Si deve aumentare l’intelligenza per ettaro», sia agronomica che economica, ovvero quella capacità di riconoscere i migliori processi produttivi, di capire dove serve innovazione tecnologica piuttosto che innovazione scientifica, nonché quando adottare una metodologia diversa permette di avere un impatto ambientale minore.
Lenzi ha sottolineato la necessità di ribilanciare la catena del valore nell’agroalimentare: chi lavora nel settore è sempre visto in posizione perdente. Si deve trovare il modo di coniugare sostenibilità e remunerazione: gli agricoltori sono i primi a subire i danni dei cambiamenti climatici e deve essere garantito loro un giusto reddito. E soprattutto cambiamo narrativa, l’agricoltura non è nemica del clima. Gli agricoltori sono essi stessi consumatori, dei quali comprendono richieste e aspettative, e hanno tutto l’interesse di produrre alimenti sani senza danneggiare l’ambiente: la Terra non è forse il loro “posto di lavoro”?
L’olio evo non è un veleno
Francesca Petrini è contitolare della Fattoria Petrini, azienda agricola marchigiana specializzata nella produzione di olio extravergine d’oliva biologico e derivati. Tra i prodotti di punta c’è “Petrini Plus”, un olio arricchito con vitamine D3, K1 e B6, testato scientificamente e clinicamente per le sue proprietà nutraceutiche.
Inevitabile che con lei si parlasse di etichette. «Secondo il sistema di etichettatura Nutriscore l’olio evo è una sorta di veleno, invece è uno dei grassi migliori per la salute». La proposta italiana di «Nutrinform battery punta invece sull’equilibrio della dieta in cui deve entrare anche l’olio d’oliva. Non demonizza nessun ingrediente ma spiega cosa contiene una singola porzione e qual è il suo valore nutrizionale».
L’Italia detiene il primato dell’olio extravergine di oliva di qualità, dobbiamo difenderlo perché è la base della dieta mediterranea, un regime super sostenibile che valorizza la diversità dei territori. Chi lavora nel biologico sa che la salvaguardia dell’ambiente non è solo un costo, ma un valore strategico per l’impresa.
Petrini è una convinta assertrice dei sistemi agroalimentari improntati alla sostenibilità per un motivo semplicissimo: sono l’unico modo per salvare l’uomo e il Pianeta.
L’effetto devastante del land grabbing
«Il cibo è un marcatore sociale, un fattore identitario» ha affermato Ivana Borsotto, presidente dell’associazione di volontariato Focsiv.
Borsotto ha fatto una riflessione sull’accaparramento delle terre, che impatta fortemente sulla produzioni di cibo. Il Rapporto sul land grabbing della Focsiv documenta che l’accaparramento delle terre a danno delle popolazioni autoctone non si è fermato nemmeno con il Covid: nel 2020 sono stati sottratti 93 milioni di ettari (una superficie pari a quella di Germania e Francia) alle popolazioni locali per essere destinati a monocolture e allo sfruttamento senza limiti delle risorse naturali, con effetti devastanti sulla qualità del terreno, sull’inquinamento e sull’impoverimento delle popolazioni.
Una lettura attenta del fenomeno evidenzia che il land grabbing genera ulteriore povertà, cambiamento climatico, disuguaglianze e migrazioni, sfruttamento del lavoro minorile ed ha ripercussioni drammatiche sulla componente femminile della società, schiacciata da comunità patriarcali che ne annientano i diritti umani.
«La Laudato si’ di Papa Francesco ha una forza rivoluzionaria» ha concluso Borsotto «porta lo sguardo dallo sfruttamento alla cura e ci avverte che il nostro comportamento deve cambiare: nei sistemi alimentari, nel produttivismo esasperato, nello sfruttamento del lavoro». Non è più accettabile girarsi dall’altra parte.
Non si risponde alla transizione ambientale omologando le diete
Diritto al cibo e sicurezza alimentare sono temi che il Food Systems Summit, pur con alcune imperfezioni, ha riportato al centro. Il Covid ha messo brutalmente sul tavolo l’impatto della crisi ambientale e sanitaria sui sistemi alimentari: temi che si incrociano con l’andamento della curva demografica e impongono di individuare nuovi equilibri e mettere in campo nuove responsabilità. Maurizio Martina, vice direttore generale della FAO, ha sottolineato che «non si risponde alla trasformazione dei sistemi alimentari e alla transizione ambientale omologando le diete. Dobbiamo stare attenti a questa tendenza che porta a impoverire territori e biodiversità, modelli alimentari, agricolture, contesti ambientali».
Il cibo va interpretato in una dimensione evolutiva, anche nel caso di pilastri di sostenibilità come la dieta mediterranea. Vogliamo che rimanga solo una parte della nostra storia o che diventi un modello anche per gli altri? Cosa succederà da qui a 50 anni? Come riprogettare i territori, come rendere consapevoli le comunità? Nei mercati occidentali il consumatore detta legge e le aziende cercano di intercettare queste richieste. Ma non è così dappertutto, ha ammonito Martina: «Gran parte del mondo non può scegliere, è un tema di sussistenza. La questione alimentare si gioca su una necessità che non è garantita a tutti».
Roma, in quanto sede di agenzie multilaterali del cibo (FAO, Ifad, WFP), e l’Italia siano protagoniste di un lavoro che deve abbracciare varie questioni: lotta allo spreco e alla perdita di cibo, diete per l’infanzia, trasformazione agroecologica, disponibilità di tecnologie e innovazione per tutti. Ma soprattutto «non basta più analizzare, organizziamo coalizioni per agire aggregando soggetti pubblici e privati su un tema e misurando le azioni fatte».
Lo spreco di cibo non è sostenibile
Cibo e spreco, due facce della stessa medaglia. Come si differenzia l’approccio al cibo? Quanto si spreca? Qual è la differenza tra lo spreco domestico ed extradomestico in base ai componenti principali delle nostre diete? Domande che fanno parte dell’analisi di Waste Watcher, l’Osservatorio internazionale sullo spreco alimentare domestico ideato e diretto da Andrea Segrè, ordinario di Politica agraria internazionale e comparata nell’Università di Bologna.
I dati del primo Rapporto globale su cibo e spreco sono relativi a 8mila cittadini USA, Cina, Russia, Regno Unito, Canada, Germania, Italia e Spagna. Diverse le cause dello spreco nei vari Paesi, il dato positivo è che l’Italia si dimostra virtuosa con uno spreco settimanale di 529 grammi a testa. Quello che Segrè sottolinea è il rapporto fra lotta allo spreco di cibo e sostenibilità: meno spreco equivale a un minore sfruttamento delle risorse (acqua, terra), minori costi di produzione, stoccaggio e trasporto, minore quantità di scarti da smaltire, minore emissione di gas serra.
Lo spreco di cibo ha un costo ambientale, economico e sociale. Bisogna lavorare sulla prevenzione, aumentare il recupero solidale delle eccedenze e far sì che il cibo sia davvero un diritto per tutti: ragioni per cui auspica un sempre maggiore coinvolgimento dei giovani, veri veicoli di cambiamento sociale.
La gestione delle eccedenze
Ha raccontato Marco Lucchini, segretario generale della Fondazione Banco Alimentare, che nel 1988 raccogliere le eccedenze alimentari era un’innovazione folle. Oggi è una grande realtà.
Il Banco Alimentare vive ogni giorno la realtà di chi spreca e la incrocia con quella di chi ha bisogno. L’anno scorso sono state recuperate più di 46mila tonnellate di cibo e sostenute più di 7600 associazioni che hanno aiutato più di 2 milioni di persone.
L’Italia ha capacità e idee innovative, ma raramente utilizza gli strumenti disponibili: il mondo ci invidia la Legge 166/2016, noi la ignoriamo. Anche nei tavoli internazionali l’Italia non c’è. Eppure è stata in anticipo sulla gestione delle eccedenze, molte ricette vengono dal recupero degli avanzi, la nostra filiera alimentare è un grande insegnamento.
Alla luce di questi numeri Lucchini ribadisce l’importanza di un lavoro comune, che valorizzi le tante idee geniali trascurate dalle istituzioni: anche non fare sistema è una forma di spreco.
I cibi più sprecati? I più sani perché più deperibili
Nei paesi sviluppati ognuno spreca in media 65 kg di cibo; una quantità che equivale alla dieta sana di una persona per 18 giorni, ha riportato Ludovica Principato di Fondazione Barilla Center for Food and Nutrition.
I cibi che sprechiamo di più sono i più sani perché più deperibili (frutta, verdura, cereali): proprio quelli che ci fanno bene, che dovremmo consumare più volte al giorno. Se i cibi più sani hanno un impatto minore sul clima, vale la pena rammentare che mangiare sano ha un impatto anche in temine di salute pubblica: saranno minori i costi sanitari per le malattie legate al cibo (ad esempio, malattie cardiovascolari, obesità, diabete).
Cosa può funzionare nella lotta allo spreco di cibo? Principato fa alcuni esempi. Per diminuire lo spreco fuori casa si possono offrire porzioni ridotte riducendo lo spreco fino al 57%; la maggiore informazione dei consumatori dimostra che se sono consapevoli dell’impatto sul portafogli lo spreco si riduce fino al 28%; nelle scuole, invece, riformulando i menù scolastici il bambino mangia meglio e lo spreco si riduce fino al 28%.