(Rinnovabili.it) – Accettare le sfide, trovare nuove soluzioni con la ricerca, avere il coraggio di innovare, promuovere i talenti, collaborare con le aziende centrate sulla sostenibilità. In un’intervista a tutto campo, il CEO di Carslberg Italia, Alberto Frausin, partendo dall’azienda spiega la sua filosofia e indica la bussola per contribuire a “salvare il pianeta”, per un mondo aperto e inclusivo, con grande attenzione alla sostenibilità e alle persone. Lo fa accogliendoci nella sede storica e meravigliosa del Birrificio Angelo Poretti, a Induno Olona, in Valganna (Varese), in occasione della degustazione in anteprima, aperta al pubblico, della cosiddetta “cotta stagionale 7 luppoli La Mielizia”, prodotta in edizione limitata in onore dell’autunno. Il Birrificio Angelo Poretti, che già partecipò all’Expo di Milano del 1881, fu scelto nel 2015 per rappresentare l’eccellenza della birra italiana come “Birra ufficiale del Padiglione Italia, a Expo2015”.
Dr. Frausin, l’innovazione è il trait-d’union fra il Birrificio Angelo Poretti nato nel 1877 e il futuro nel quale siete immersi. Quali sono le prossime sfide innovative?
Faccio una premessa. Credo moltissimo nell’innovazione e credo che i prossimi dieci anni saranno molto più innovativi degli ultimi venti. Le tematiche oggi sono più complesse e, con l’economia circolare, ci stiamo rendendo conto che le risorse, a partire dall’acqua, scarseggiano. Inoltre, cresce la popolazione del pianeta. Il modello di sviluppo del passato è superato, se continuiamo senza innovazione siamo destinati a lasciare un pianeta che non può sopravvivere. L’esigenza di cambiare le regole è ormai quasi disperata e siamo anche in ritardo. Mentre sogniamo di fermare l’innalzamento della temperatura del pianeta di 2 gradi, siamo già oltre. E’ un tema anche politico. Se intere aree del mondo vanno incontro a desertificazione, non fermeremo mai il problema dell’immigrazione. Lavorare bene su questi temi significa anche alleggerire un contesto drammatico, dove la gente che muore non ha niente da perdere nel cercare di spostarsi ovunque sia. Il dramma di questo scenario è che il sistema della politica è purtroppo indebolito in tutto il mondo e non ci sono più le condizioni per decisioni di medio – lungo periodo. Poiché l’innovazione in qualche modo deve continuare, le scelte di lungo periodo maturano e vengono prese dalle istituzioni, dai grandi gruppi e nelle università.
L’innovazione deve essere condivisa...
Questo è un punto importantissimo. La Carlsberg fa ricerca da 170 anni e da 170 anni condivide l’innovazione. Perché la condivide? Perché in realtà certi temi fanno cross (contaminano i settori, ndr) . Il famoso lievito che abbiamo inventato all’interno dell’azienda è diventato patrimonio dell’industria birraia. La nostra storia è legata alla condivisione. Ho lavorato in aziende, anche italiane, molto illuminate, ma non avevo mai visto nella mia carriera personale che si potesse arrivare a condividere i progressi fatti. La mia filosofia è cercare di fare qualcosa, nell’ambito di quello che ho attorno a me, per contribuire a far conoscere che esistono modelli diversi per “stare al mondo”.
Si riferisce all’attenzione ambientale?
Tutta l’attenzione sulla sostenibilità ambientale su cui mi sono concentrato negli ultimi dieci anni ha fatto sì che le aziende intorno a Carlsberg Italia si siano mosse in questa direzione, perché hanno capito che la strategia della sostenibilità è di tutti e va condivisa. Sono anche presidente di GS1Italy – (l’associazione che riunisce 35 mila imprese di beni di consumo che condividono soluzioni e servizi per rendere più efficiente la filiera del largo consumo,ndr) e ho organizzato un meeting sugli impatti della logistica. Gli impatti più rilevanti derivano dalla mancata ottimizzazione sia dei carichi nel trasporto su gomma, sia nei percorsi fra Nord e Sud, in un Paese come il nostro che ha barriere logistiche terrificanti, e in assenza del trasporto intermodale. Su questo terreno ancora una volta siamo indietro. Ho chiesto pertanto alle aziende evolute – e sono tante – di portare la propria esperienza e “contaminare”.
Sulla logistica qual è la vostra esperienza?
La sostenibilità dei trasporti nel nostro mondo è fondamentale, perché movimentiamo carichi pesanti e abbiamo molte persone che si muovono all’esterno e molti tecnici. All’interno dell’azienda abbiamo messo carrelli elettrici e macchine elettriche di servizio, realizzate con Enel e e.vai ( il car sharing Fnm che fornirà le colonnine per la ricarica delle auto aziendali, grazie a una collaborazione siglata da Carlsberg Italia lo scorso 29 giugno anche con la Regione Lombardia, ndr). Sostituiremo tutto il parco auto aziendale, costituito da molte centinaia di auto, con auto ibride, tutte uguali, tutte di un unico colore. La vecchia cultura del mondo delle aziende faceva sì che le persone a livelli più bassi avessero macchine poco sicure che macinavano anche 150 mila kilometri l’anno. L’apice aveva la macchina meravigliosa e faceva magari 10 mila kilometri. Ribaltiamo i paradigmi e mettiamo macchine sicure che abbiano basso impatto ambientale. Bisogna avere il coraggio di cambiare, anche se questo può provocare qualche resistenza.
In Italia è difficile il cambiamento?
L’elemento forse più difficile nel nostro contesto è la difficoltà al cambiamento. Quando spiego il perché di questa resistenza, dico sempre che l’Italia è il paese più innovativo al mondo, ma quando si scopre un’innovazione qui, bisogna realizzarla fuori. L’innovazione in Italia è lentissima, non va avanti. Lo abbiamo visto con i fusti di PET, che sono pesati, certificati e tuttavia vedono un processo lento. Questo accade perché l’italiano è sostanzialmente resistente al cambiamento. Negli Stati Uniti, dove ho vissuto, è l’opposto. Il nostro futuro come paese Italia deve essere quello di favorire il centro dell’innovazione. Tutta la nostra storia ci ha caratterizzato nei secoli come centro di innovazione. Tutti i grandi geni sono nati qui. Il nostro terreno di gioco è innovare e andare fuori dei confini italiani. Questo, fra l’altro, mantiene viva l’intelligenza dei nostri ragazzi. Il vero tema, oggi, più che l’immigrazione, è il fatto che perdiamo più di 100 mila persone altamente qualificate all’anno. Dall’inizio della crisi ad oggi abbiamo perso un milione di persone ad alto potenziale. Sono giovani su cui abbiamo investito e che abbiamo istruito qui. Il problema del Governo oggi è studiare come tenere queste persone, o riportarle in Italia. Sono persone che oggi lavorano a Cambridge, ad Oxford, in Cina o negli Stati Uniti e occorre cercare di farle tornare, per diffondere e valorizzare quello che hanno imparato, altrimenti il nostro diventa un paese di pensionati.
Se la politica arranca nelle scelte di lungo periodo, tuttavia i processi cambiano. Come contribuire allo sviluppo?
Il tema è continuare ad innovare. Penso che qui abbiamo moltissime risorse. Sono convinto che l’innovazione oggi arrivi in aziende molto più aperte di una volta. Pensiamo ad Apple, dove Steve Jobs era un visionario che però si chiudeva a riccio con tutti, in posizione di difesa. L’unico modo per contribuire allo sviluppo per me é continuare ad aprirmi, vivendo l’Università, confrontandomi con i ragazzi, guardando alle start-up. Ogni giorno voglio imparare qualcosa e oggi imparo molto di più guardando un settore diverso piuttosto che il largo consumo, dove lavoro da circa 40 anni. Penso, ad esempio, alle famose blockchain. Sui nostri fusti in PET c’è un chip che racconta la storia del fusto e ci consentirà di fare smaltimento responsabile. Ecco, si parla tanto di digitale, ma a un certo punto occorre fare le cose, passando dallo storytelling allo storydoing.
I fusti in PET 100% riciclabili ai quali siete giunti sviluppando l’innovativa tecnologia DraughtMaster, che nel 2017 hanno quasi interamente sostituito quelli in acciaio, hanno consentito negli anni un minor rilascio nell’atmosfera di migliaia di tonnellate di anidride carbonica. Com’è nata l’idea di sviluppare questa tecnologia?
Il PET è un’innovazione che stava nel cassetto della casa madre. L’intento era quello di distribuire la birra alla spina nelle case senza aggiunta di CO2. Per questioni di sicurezza, non si potevano portare infatti i fusti di birra in acciaio contenenti CO2, aggiunta per la spillatura. Fu inventato questo sistema, lanciato in Danimarca e poi abbandonato. Partendo da quell’idea ho pensato di portarla nel settore della ristorazione, dei bar, delle pizzerie, dove mediamente la qualità del prodotto birra è mediocre, con consumi di CO2 terrificanti e l’impossibilità di offrire le specialità di prodotto alla spina. Così, abbiamo ribaltato il mondo come doveva essere ribaltato. Vendiamo alla spina tutte le specialità, i prodotti di qualità, riducendo in modo consistente le emissioni di CO2. Nel 2010 la nostra birra alla spina era al 40%, oggi supera il 50%. Abbiamo guadagnato ogni anno uno o due punti percentuali. I paesi internazionali sono arrivati all’80%. Ciò equivale a decine di milioni di tonnellate di CO2 in meno nell’atmosfera, un impatto enorme solo dalla birra.
Nel calcolo delle minori emissioni di CO2 è compreso l’intero ciclo di lavorazione della birra?
Certo, è compreso anche l’orzo che poi diventa malto all’interno. La metodologia LCA – Life Cycle Assessement, sviluppata in collaborazione con l’Istituto di Economia e Politica dell’Energia e dell’Ambiente della Bocconi – , riporta al concetto di circular economy. Parte dal seme del luppolo e segue il processo – raccolta, trasporto in Italia dalla repubblica Ceca o dagli Usa, utilizzo nella produzione e via dicendo – misurando gli impatti ambientali “ dalla culla alla tomba”. Tutti i grandi gruppi oggi hanno posto l’attenzione sulla riduzione degli impatti ambientali in fabbrica. C’è un motivo molto semplice. Minori consumi di energia generano un impatto sia economico – ridotta bolletta energetica- sia ambientale, con immediato ritorno. Attenzione però, perché bisogna anche valutare il prima e il dopo della produzione. Per alcuni settori, come il nostro, conta quasi di più il dopo. Se dall’azienda escono fusti di birra in acciaio, per 100 litri di prodotto il carico in uscita è pari a 170 kilogrammi (1 fusto in acciaio contiene 10 litri di prodotto e il vuoto pesa 7 kg). Il vuoto da “riutilizzare” sarà di 70 Kg. Se invece escono 10 fusti in PET 100%, per la stessa quantità di prodotto, il carico sarà di 103 kg ( il peso di un fusto vuoto di PET è pari a 300 gr) e soltanto 3 Kg saranno da riutilizzare. A conti fatti, nel primo caso ci saranno 67 kg di differenza di vuoti da riciclare.
Il packaging è fondamentale per una produzione sostenibile, evitando sprechi?
Il futuro del packaging, che assolve nel campo alimentare la funzione fondamentale di assicurare la durata, sarà quello di ridurne costantemente l’entità, in modo da renderlo sempre più riciclabile, meno invasivo e meno pesante. Oltre al minor peso, c’è un altro aspetto fondamentale dei fusti in PET che va sottolineato, ovvero l’assenza di spreco di prodotto. Con il fusto in acciaio si butta l’8%, dal momento che rimane la schiuma. A ciò si aggiunge una percentuale del 3% di prodotto, che si butta perché nel fusto di acciaio la birra scade dopo 4-6 giorni. A conti fatti, con il fusto di acciaio viene buttato via dal 10 al 12% di prodotto, uno spreco alimentare che trascina con sé un enorme spreco di acqua di migliaia di ettolitri, se si pensa che per fare un litro di birra occorrono mediamente 4 litri di acqua. Con il fusto in PET, al contrario, non si butta nulla, perché la birra non scade. Non si deve utilizzare neanche l’acqua necessaria (mezzo litro per fusto) per sanificare i fusti in acciaio quando tornano in azienda e questo è un altro risparmio idrico.
Nel vostro ultimo bilancio di Sostenibilità emerge che nel 2017, a fronte di un incremento del 6% nella produzione della birra, l’azienda ha ridotto del 6% i consumi complessivi di acqua rispetto al 2016 e dell’11% i consumi specifici. Il risparmio idrico è uno dei progetti 4.0 a cui accennava?
E’ così. Uno dei progetti 4.0 fondamentali dell’azienda è quello di evitare sprechi di acqua. Risparmiare acqua oggi è fondamentale. Siamo passati dai 4,3 litri d’acqua per litro di birra del 2015 ai 3,1 litri d’acqua per litro di birra. Il nostro obiettivo è migliorare ancora (Il dato è allineato al risultato raggiunto a livello di Gruppo, ndr).
Riguardo ai progetti in corso, Lei ha fatto riferimento ad un accordo sviluppato con Costa Crociere. Di che cosa si tratta?
Il gruppo Costa ha adottato la nostra tecnologia DraughtMaster sulle navi, che arrivavano nei porti con i fusti di acciaio, la cui gestione era difficile. In una nave gli spazi sono importanti. Con la nostra tecnologia, si risparmia dal 25 al 35% dello spazio. I fusti in acciaio, oltre ad essere pesanti, erano difficilmente impilabili e, consumato il prodotto, rimaneva da gestire il vuoto. Con i fusti in PET la nave può organizzare in modo efficiente molto più spazio.
In tal modo immagino che Costa migliori anche il proprio bilancio di impatto ambientale..
Da quanto conosco io, Costa è un’azienda molto avanti su questo versante, anche sotto il profilo della riduzione dello spreco alimentare. E’ un gruppo con cui ci siamo trovati sulla stessa dichiarazione d’intenti, che si riassume nella frase “Qualità innanzitutto, ma non basta”, perché la qualità deve essere sostenibile. La qualità spesso incrocia anche la sostenibilità. La visione strategica su questi temi ci accomuna e, dopo quattro anni di duro lavoro, siamo oggi in grado di creare un bilancio di sostenibilità per loro, per capire l’impatto della birra consumata sulle navi Costa Crociere, attraverso il Life Cycle Assessment. Ancora una volta credo che in futuro i legami forti fra le aziende saranno legami in cui non vive soltanto il rapporto di vendita e di profitto, ma unisce anche una visione sulla sostenibilità.
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