Sfruttamento sistemico, lavoro grigio, violenze fisiche. Alimentati da aste al doppio ribasso, ricatti e truffe, concentrazioni di terra in mano a pochi e strapotere dei grandi distributori. C’è tutto questo dietro a quello che portiamo sulle nostre tavole
Il dossier di Terra! racconta il caporalato in Italia, Grecia e Spagna
(Rinnovabili.it) – L’agricoltura è al tempo stesso l’ossessione e il punto cieco dell’Europa. La politica agricola comune (Pac) si mangia un terzo del budget UE, qualcosa come 358 miliardi di euro: una cifra ragguardevole anche in tempi di bazooka e Recovery Fund che la dice lunga su quanto la politica guardi con attenzione alla terra, a chi la coltiva e agli interessi che ci gravitano attorno. Ma l’agricoltura è anche il punto cieco di un’Europa e di Stati che fanno poco (quando va bene) o cercano di ignorare i suoi problemi strutturali, che sono spesso quelli di carattere sociale. Tra cui il caporalato.
Caporalato, un problema mediterraneo (ed europeo)
Un tema carsico della politica italiana (e non solo), il caporalato. Compare e scompare, segue il ciclo della notizia. Emerge con il fatto di cronaca, associato alle arance di Rosarno, ai pomodori di Vittoria, alle serre dell’Agro Pontino, ai frutteti di Saluzzo. E in altri paesi europei le cose non vanno diversamente. Anzi: l’Europa mediterranea si assomiglia anche in questo, nelle filiere agricole fragili e nella diffusione vasta e capillare dello sfruttamento dei lavoratori agricoli.
A far luce su questo fenomeno nella sua dimensione transnazionale ci pensa l’ultimo dossier di Terra!, l’associazione ambientalista che da anni lavora sulle storture del comparto agricolo e sui modi per raddrizzarle. In E(U)xploitation. Il caporalato: una questione meridionale. Italia, Spagna, Grecia, Terra! racconta la dimensione continentale dello sfruttamento del lavoro in agricoltura. Lo fa con un dettagliato lavoro d’inchiesta sul campo, affidato al direttore dell’associazione Fabio Ciconte e al giornalista Stefano Liberti per il caso italiano, alla giornalista Mariangela Paone per la Spagna e al giornalista e ricercatore Apostolis Fotiadis per la Grecia.
Un occhio alla riforma della Pac
Il rapporto ricostruisce così le maglie larghe delle normative, che permettono al fenomeno del caporalato di prosperare. Ma prosegue il racconto fino a toccare lo squilibrio nel potere di mercato e la debolezza dei controlli nelle filiere di importanti produzioni dell’Europa mediterranea. Tutto ciò mentre a Bruxelles si è arenata su un punto cruciale la riforma della Pac, che deciderà il futuro dell’agricoltura europea fino al 2027: la condizionalità sociale.
Fuor di linguaggio burocratico, il tema è quello dei vincoli che la riforma metterà ai pagamenti diretti che l’UE effettua ai produttori agricoli. Finora hanno ricevuto l’ok soltanto i vincoli ambientali e climatici, una serie di misure per far sì che le pratiche agricole contribuiscano agli obiettivi del Green Deal e della strategia Farm to Fork. Manca qualsiasi riferimento alla dimensione sociale. Questo significa che, finora, Bruxelles ha potuto dare sovvenzioni anche a chi non rispetta i diritti di base dei lavoratori, chi specula sul lavoro grigio, chi sfrutta e ne trae profitto. La riforma della Pac vuole correggere il tiro, ma ai negoziati tra europarlamento, Commissione e Consiglio c’è chi rema contro.
La scorsa settimana, più di 300 ong di tutta Europa (tra cui Terra!) hanno pubblicato una lettera aperta in cui chiedono che l’UE inserisca dei vincoli adeguati e non chiuda gli occhi di fronte alla necessità di iniettare più giustizia sociale nei nostri campi. “Lo sfruttamento del lavoro è una piaga connessa a un’economia di filiera fragile, che vive di informalità – dichiara Fabio Ciconte, direttore di Terra! – Questa è una realtà non solo nazionale, ma europea. Ecco perché chiediamo che l’Europa si faccia carico con maggiore determinazione delle condizioni sociali ed economiche dei lavoratori agricoli, costretti a vivere in condizioni di invisibilità e precarietà estrema”.
Il Sud Italia tra Gdo e lavoro grigio
Forte disgregazione tra gli addetti del settore, scarsità di politiche di filiera e mancanza di organizzazione del lavoro. Tre punti critici che pervadono il comparto agricolo nel sud Italia e lo consegnano, più o meno inerme, ai diktat della grande distribuzione organizzata (Gdo). Una Gdo che arriva a pesare per il 70% dei prodotti commercializzati e ne approfitta imponendo condizioni contrattuali molto dure ai produttori, tra cui le aste al doppio ribasso.
Carattere trasversale è la distorsione del lavoro regolare. Nell’Agro Pontino prospera il lavoro a cottimo, dove come spiega il rapporto di Terra! i “mazzetti” raccolti dai braccianti vengono convertiti in giornate di lavoro in modo arbitrario. Nel Foggiano il fenomeno vira verso i falsi braccianti e le imprese intermediatrici fittizie: tutti iscritti all’Inps negli elenchi agricoli da aziende che però non svolgono attività nel settore, così da ricevere i sussidi. Imperversa poi la pratica del lavoro grigio, con cui il datore di lavoro non segna mai più di 180 giornate ma in realtà garantisce lavoro per tutto l’anno: così paga meno tasse e il lavoratore può accedere alla disoccupazione agricola. Ma quest’ultimo resta in condizione di subalternità.
Cosa succede in Grecia e Spagna
Basta un dato per intuire la fragilità della filiera agricola in Grecia: il 90% della manodopera del settore agricolo è composto da migranti, la maggior parte dei quali lavora in modo informale, viene pagata in nero e non è assicurata. Un sistema permeato di caporalato che prospera anche grazie ai buchi clamorosi nel sistema nazionale di controllo delle aziende agricole che fa capo al ministero del Lavoro.
A questo si aggiunge la debolezza di una filiera composta al 98% da PMI con una superficie media di meno di 7 ettari. I soggetti forti della distribuzione e della commercializzazione mettono facilmente in competizione tra loro le piccole aziende, Queste per non sprofondare tagliano la voce su cui è più facile agire: il costo del lavoro. Il circolo vizioso alimenta così lo sfruttamento.
In Spagna la piaga è il bracciantato “interinale”. L’inchiesta sul campo parte dalla Murcia, la regione spagnola nota anche come ‘orto d’Europa’ per la sua produzione massiccia di frutta e verdura. Qui il 75% dei nuovi contratti agricoli stipulati nel 2019 è tramite agenzie interinali. Che però non applicano quasi mai il contratto collettivo di settore. Per gli irregolari il compenso si aggira anche sui 150-200 euro al mese. Su questo quadro si innesta la pratica della contrattazione all’origine, cioè la chiamata diretta da paesi terzi che la Spagna ha trasformato in modello ed esportato in tutto il continente. Nelle pieghe di questo fenomeno si celano sfruttamento e violenze fisiche ai danni delle lavoratrici marocchine. Nel mix non manca una fortissima concentrazione del valore della produzione nelle mani di pochi. Tra le dinamiche distorsive del mercato, questo fenomeno genera pressione sui piccoli e medi produttori, spingendoli a ricorrere a forme di sfruttamento dei braccianti.
Nel frattempo, in un processo di integrazione verticale, le grandi società finanziate da fondi di investimento spingono un numero crescente di agricoltori a rifornirsi presso di loro di tutto il necessario, dalle sementi ai pesticidi, fino alle consulenze. Succede ad esempio per l’uva da tavola. La relazione da un lato presenta i benefici di un legame commerciale stabile e con un rendimento garantito, dall’altro si basa su una dipendenza che, soprattutto nei casi di aziende dedicate solo a un tipo di prodotto, lascia nelle mani dell’impresa integratrice la gestione della produzione, mentre tutti i rischi sono sulle spalle dell’agricoltore.