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Il blocco dell’export di olio di palma agita i mercati

Per contrastare l’aumento del prezzo dell’olio di palma sul mercato interno, l’Indonesia ha bloccato le esportazioni. Le ripercussioni sui mercati mondiali sono state immediate. Nonostante sia criticato per motivi diversi, l’uso dell’olio di palma è ancora largamente usato dall’industria agroalimentare

olio di palma
Foto di Achim Halfmann da Pixabay

(Rinnovabili.it) – Il 28 aprile l’Indonesia bloccherà le esportazioni di olio di palma, di cui è il primo produttore mondiale.

La decisione del blocco è scattata per contrastare l’aumento del prezzo dell’olio di palma sul mercato interno, che ha già superato il 40% dall’inizio dell’anno. Ovviamente, le ripercussioni si sono fatte sentire sul mercato mondiale.

Materie prime alimentari e mercati

Anche se sembra strano, le materie prime alimentari si comportano sui mercati né più né meno come tutte le altre e provocano rialzi e ribassi: ad esempio, il prezzo dell’olio di soia, la scorsa settimana, ha raggiunto il massimo storico alla borsa di Chicago.

Nel 2021 l’Italia ha importato dall’Indonesia circa la metà del quantitativo necessario di olio di palma (721mila tonnellate), secondo l’analisi di Coldiretti su dati Istat.

L’olio di palma è un prodotto sotto accusa per motivi diversi: da un lato ha un elevato contenuto di acidi grassi saturi e quindi fa male alla salute, dall’altro la richiesta del mercato sta portando a un disboscamento selvaggio delle foreste in alcune aree del mondo, e quindi fa male all’ambiente. A questo si aggiunge l’inquinamento dovuto al trasporto.

Leggere sulle confezioni degli alimentari la scritta “senza olio di palma” è diventata ormai una rassicurazione per i consumatori. Molte aziende, tuttavia, continuano a utilizzarlo in prodotti da forno, zuppe e piatti pronti, creme spalmabili.

I prezzi raddoppiano

Coldiretti denuncia «una circolare del Ministero dello Sviluppo Economico emanata all’inizio di aprile che consente all’industria alimentare di utilizzare l’olio di palma in sostituzione di quello di girasole senza indicarlo esplicitamente in etichetta».

Confagricoltura ricorda che «sono bloccate le esportazioni di olio di girasole dell’Ucraina e su quelle della Federazione Russa si applica da aprile una tassa del 20 per cento».

Anche in questo caso i rincari sono stati praticamente immediati: in Italia, stando ai dati ISMEA (Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare), il prezzo dell’olio di girasole raffinato negli ultimi dodici mesi è passato da 1,46 a 2,87 euro al chilo.

Per questa ragione, «in alcuni Stati membri e nel Regno Unito le insegne della grande distribuzione hanno deciso di limitare gli acquisti giornalieri di tutti gli olii vegetali».

Intervenire subito per scongiurare una crisi alimentare

Il rischio di una crisi alimentare è altissimo e non solo il Italia o in Europa. Sia il Fondo Monetario Internazionale che la Banca d’Italia hanno «segnalato la necessità di un intervento degli organismi internazionali a supporto dei Paesi meno avanzati e in via di sviluppo che sono localizzati in Africa e in Asia Centrale».

Un intervento a cui l’Unione Europea non può sottrarsi, cosciente che una crisi alimentare innescherebbe gravi crisi sociali e ondate migratorie fuori controllo.

Massimiliano Giansanti, presidente di Confagricoltura, evidenzia la necessità di prorogare «la facoltà concessa quest’anno di coltivare negli Stati membri i terreni a riposo produttivo che ammontano a circa 4 milioni di ettari.

Per frenare l’inflazione alimentare, contrastare l’eccezionale aumento dei costi di produzione e contribuire alla stabilità dei mercati internazionali è indispensabile aumentare i raccolti europei di cereali e semi oleosi».

Inoltre, sia Coldiretti che Confagricoltura sostengono l’urgenza di definire un piano olivicolo nazionale. L’Italia è il secondo produttore mondiale di olio d’oliva: un prodotto sostitutivo di grande qualità che, rispetto ad altri olii, ha registrato aumenti molto più contenuti.