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Se il cibo è “bio”, occhio all’etichetta per sapere se è in regola

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(Rinnovabili.it) – Biologo del CNR, esperto del Dipartimento di Scienze Bio Agroalimentari, Mauro Gamboni ha ricoperto svariati incarichi ed è autore di oltre 100 lavori fra pubblicazioni, rapporti tecnici, working-paper e presentazioni a congressi. Già presidente della Rete Italiana per la Ricerca in Agricoltura Biologica (RIRAB), oggi è è membro del consiglio direttivo della stessa e, fra le numerose attività, è responsabile dell’Ufficio di Supporto alle attività progettuali del Dipartimento e degli Istituti afferenti del CNR, rappresentante dell’Ente nella task force promossa da FAO e CIHEAM sugli indicatori per valutare la sostenibilità della dieta mediterranea e coordinatore della Piattaforma Tecnologica Nazionale PT Bio Italia, membro della Piattaforma Tecnologica europea TP Organics. In questa intervista a Rinnovabili.it spiega scientificamente perché e quando si può dire che l’alimento è “bio”, analizzando scenari attuali e prospettive future.

 

Per chi fa ricerca, ha senso parlare di agricoltura biologica?

Dal punto di vista semantico, il termine potrebbe prestarsi a interpretazioni fuorvianti. In effetti, tutta l’agricoltura si fonda sull’uso di risorse biologiche. Eppure oggi questa locuzione descrive in modo chiaro un particolare metodo di produzione agricola ben distinto da quello tradizionale. Va innanzitutto detto che l’agricoltura biologica è nata come azione di contrasto all’inquinamento e al deterioramento ambientale determinato dalle pratiche convenzionali in uso in agricoltura. Si configura infatti come un regime di coltivazione o di allevamento basato sulle migliori pratiche ambientali, la salvaguardia delle risorse naturali e la riduzione dell’impatto ambientale. Non a caso, in alcuni paesi europei viene indicata come agricoltura ecologica o, secondo il termine anglosassone, agricoltura organica. E’ importante tuttavia sottolineare che in Italia l’agricoltura biologica è unicamente quella che segue le disposizioni stabilite da un preciso e rigoroso regolamento europeo (regolamento (CE) 834/07) e i cui prodotti sono riconoscibili da un apposito logo adottato da tutti i paesi comunitari. Dunque in Italia tutti i prodotti che si qualificano come “ecologici”, “naturali”, sostenibili o anche biologici ma senza il marchio UE, non sono da considerarsi “biologici” rispondenti alle norme europee.

 

Perché agricoltura ecologica o organica?

I termini “ecologica” o “organica” impiegati in altri paesi, discendono da alcuni principi fondamentali su cui si basa l’agricoltura biologica e cioè l’impiego di un sistema di gestione sostenibile della produzione agricola, l’utilizzo di concimi organici al posto dei fertilizzanti chimici ed il divieto dell’impiego di pesticidi di sintesi. Nella sostanza, quando parliamo di agricoltura biologica parliamo di un tipo di coltivazione o allevamento che tende a minimizzare le ricadute negative sull’ambiente e a tutelare l’agro-ecosistema. C’è da aggiungere che i prodotti biologi possono anche presentare risvolti positivi sul lato della salute dell’uomo. Un prodotto biologico dovrebbe infatti escludere la presenza di residui di fitofarmaci.

 

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Chiariamo che cosa si intende per fitofarmaci?

I fitofarmaci, o prodotti fitosanitari, sono prodotti di sintesi o naturali, impiegati per difendere le colture o per favorire la crescita delle piante. I pesticidi sono una categoria di fitofarmaci destinata a combattere le avversità biologiche (batteri, funghi, insetti, malerbe, ecc.). Questi prodotti sono spesso posti sotto accusa per il potenziale rischio per la salute umana e, tra questi, in particolare quelli chimici di sintesi, ovvero molecole prodotte attraverso processi chimici in laboratorio o negli impianti industriali. Questi prodotti, al di sopra di una certa soglia, possono risultare nocivi per la salute. Quindi, benché l’agricoltura biologica non sia nata con finalità specifiche legate alla salute umana, nella realtà, in considerazione del mancato impiego di pesticidi di sintesi, i prodotti che ne derivano presentano minore rischio potenziale di danno alla salute.

 

E’ provato scientificamente che i prodotti derivati dalla cosiddetta agricoltura biologica siano realmente più sani?

Distinguiamo innanzitutto gli aspetti legati al potenziale rischio per la salute umana, di cui si è parlato in precedenza, da quelli legati al valore nutrizionale e salutistico. Su questo tema esiste una letteratura scientifica ampia che tuttavia non consente di poter dare una risposta univoca. I prodotti provenienti da agricoltura biologica hanno caratteristiche molto diverse tra loro dal punto di vista nutrizionale e possono dipendere non soltanto dal regime con cui vengono coltivati, ma anche da altri fattori, quali ad esempio la situazione climatica locale, il tipo di varietà che viene utilizzata, le caratteristiche del suolo e così via. Tuttavia, alcune sostanze che inducono effetti positivi sulla salute, come ad esempio gli antiossidanti, possono essere presenti in maggiori quantità in colture biologiche dato che essi vengono prodotti in risposta a stress a cui sono sottoposte le piante allevate sotto tale regime. Tipico il caso del pomodoro biologico che contiene maggiore quantità di licopene rispetto al pomodoro coltivato in convenzionale. In linea generale, pur non essendo sempre certa una diretta corrispondenza fra il prodotto biologico e il suo valore salutistico, la presenza di molecole funzionali lo fa presumere. Tipico esempio quello del latte che proviene da allevamenti in regime biologico nel quale si registra una presenza più alta di alcune sostanze ad elevato valore salutistico, come gli omega 3 e la vitamina E.

 

La letteratura scientifica si sta occupando di questo aspetto?

Sì, questo è un tema particolarmente importante sul quale c’è forte sensibilità da parte dei consumatori. Posso citare al riguardo alcuni lavori scientifici molto recenti che affrontano questo problema. In particolare il mese scorso è uscito un articolo riguardante le implicazioni dei prodotti biologici e dell’agricoltura biologica sulla salute. L’articolo mette a confronto gli alimenti biologici con quelli convenzionali rispetto a parametri importanti per la salute umana. Ne deriva che gli alimenti biologici possono ridurre il rischio di malattie allergiche o di fenomeni legati al sovrappeso e obesità, tuttavia sottolinea anche il fatto che i consumatori di prodotti biologici tendono complessivamente ad avere uno stile di vita più sano. Di maggiore rilevanza è l’aspetto legato all’uso di antibiotici nella produzione animale. Infatti, è importante sottolineare che l’uso di antibiotici è normalmente vietato nella produzione biologica con conseguente riduzione del rischio di assunzione attraverso l’alimentazione. Da segnalare infine un altro recente e interessante articolo che ha messo in evidenza la minor incidenza della sindrome metabolica nei soggetti che fanno uso di prodotti biologici, pur rimarcando la necessità di ulteriori studi prospettici e randomizzati.

 

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Abbiamo parlato della salubrità dei cibi per le persone. Rispetto alla salubrità dei terreni delle colture biologiche, esistono norme di controllo per verificare se non insistano ad esempio, su falde acquifere inquinate o si trovino a distanza ravvicinata di aziende inquinanti?

L’obiettivo del biologico è sano, in quanto finalizzato a ridurre l’impatto ambientale del regime colturale o di allevamento che si sta praticando, non utilizzando fitofarmaci di sintesi per le coltivazioni o antibiotici per gli allevamenti. La domanda che viene posta è duplice. Nel primo caso, la risposta investe tutto il settore agricolo e non solo quello biologico. Cioè le norme prevedono livelli di qualità adeguata per l’impiego dell’acqua in agricoltura ed è certamente vietato coltivare su suolo compromesso dalla presenza di sostanze pericolose. Quindi la risposta è che l’intera attività agricola non è consentita laddove si fa uso di acqua inquinata o si coltiva su suolo inquinato. La seconda questione riguarda invece il rischio che le coltivazioni biologiche siano compromesse dalla presenza a distanza ravvicinata di aziende che fanno uso di pesticidi i quali possono trasferirsi accidentalmente sulle colture biologiche. Attorno a questo aspetto si sta sviluppando una discussione molto ampia, anche a livello internazionale, per capire come poter intervenire in tali circostanze. D’altra parte, non è facile, perché se un agricoltore o un allevatore intraprende il percorso giusto e intervengono delle interferenze non causate dalla sua pratica, ma da condizioni esterne, la gestione di questa situazione può diventare complicata.

 

Sulle regole per i siti produttivi biologici c’è quindi un vuoto legislativo?

In effetti, queste problematiche non sono ancora sufficientemente trattate. Nella fase di attuazione di un importante documento, che è il Piano d’Azione Nazionale sull’Uso Sostenibile dei Prodotti Fitosanitari, redatto su richiesta dell’Unione europea ai vari paesi membri  al fine di  ridurre l’uso dei pesticidi ed incentivando pratiche agricole fondate sulla difesa integrata e l’agricoltura biologica, esiste una norma che tratta, tuttavia in modo ampiamente insufficiente, questo aspetto. Nella sostanza stabilisce che “le aziende agricole, al fine di tutelare le proprie produzioni, con particolare riguardo a quelle ottenute con il metodo biologico, possono richiedere alle aziende confinanti di essere informate circa gli interventi fitosanitari e i relativi principi attivi impiegati”. Sostanzialmente non fornisce alcuna garanzia alle aziende bio, anche perché non è prevista nessuna sanzione in caso di mancata risposta. E’ da segnalare un caso concreto verificatosi in Toscana che ha affrontato questo problema.  Si tratta di una grande azienda, specializzata nella produzione di prodotti per il benessere certificati come biologici, che ha minacciato il trasferimento delle proprie produzioni in altre zone o addirittura in Africa a causa dell’uso massiccio di pesticidi nell’area. Trattandosi di un danno economico e occupazionale rilevante, la Regione è intervenuta coinvolgendo i soggetti interessati per assicurare una qualità ambientale tale da consentire il mantenimento delle coltivazioni biologiche e di quelle convenzionali. Questo caso è stato citato come una best practice in un recente convegno dal titolo “Piano di Azione Nazionale (PAN) per l’uso sostenibile dei prodotti fitosanitari: il ruolo dei PSR e dell’agricoltura biologica”, tenutosi il 26 e 27 ottobre 2017 a Firenze.

 

Che cosa deve fare invece un’azienda per convertirsi al biologico?

Il caso di un’azienda che si converte al biologico è diverso. L’azienda deve trascorrere due anni di conversione per passare al bio. Questa scelta comporta una serie di adempimenti amministrativi che riguardano la notifica della propria attività all’autorità pubblica competente e ad uno degli organismo di controllo – autorizzati dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali – il quale procede ad avviare il percorso di certificazione dell’azienda. Viene definito un piano di conversione nel quale sono riportati i dati di partenza che espongono potenzialità e fattori limitanti dell’azienda e le soluzioni tecniche da adottare per convertirsi pienamente al biologico. E’ evidente che sarà necessario all’origine verificare la mancanza di potenziali fonti d’inquinamento e di contaminazione.

 

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Ma come si fa a capire da dove arriva il prodotto bio?

Questo è un altro aspetto delicato e riguarda le frodi, capitolo drammatico che penalizza il bio svantaggiando proprio le aziende più virtuose. La prima misura da adottare è quella di accertarsi della certificazione del prodotto. I prodotti bio riconosciuti sono contrassegnati da uno specifico logo (la fogliolina verde con le stelle dell’Unione europea). E’ importante anche verificare che oltre all’immagine siano riportati: il codice ISO identificativo del paese europeo (es. “IT” per l’Italia, “FR” per la Francia, “DE” per la Germania, ecc.); il codice a tre lettere riferito al tipo di certificazione, nel nostro caso ovviamente quella biologica (es. “BIO”, “ORG”, “ECO”, “ÖKO” a seconda dei termini adottati dai vari stati membri dell’UE); il numero di tre cifre che identifica l’organismo di controllo che ha concesso la certificazione e, inoltre di grande importanza, l’indicazione del luogo di provenienza.

 

Quali sono i parametri per la certificazione? 

L’ottenimento della certificazione biologica prevede una serie di adempimenti da parte dell’azienda e un controllo da parte degli organismi deputati, accreditati dal Ministero delle Politiche Agricole e Forestali. C’è un iter rigoroso da seguire. Per potersi fregiare del logo di agricoltura biologica è necessario seguire il Regolamento comunitario CE 834/2007, in cui sono indicati i passi. Dopo una prima verifica da parte degli ispettori, le aziende bio sono sottoposte periodicamente a dei controlli. La disciplina del biologico prevede numerosissimi adempimenti ed il rispetto di principi specifici che investono numerosi aspetti dell’attività aziendale quali ad esempio: il mantenimento della fertilità naturale del suolo e della sua biodiversità, la prevenzione dell’erosione, la riduzione al minimo dell’impiego di risorse non rinnovabili, la rotazioni delle colture, l’impiego di metodi meccanici e fisici al posto di quelli chimici per la protezione delle piante, la tutela della salute degli animali e del loro benessere. Anche per la trasformazione di prodotti biologici sono indicati principi specifici che comprendono l’impiego di ingredienti provenienti anch’essi dall’agricoltura biologica e la limitazione nell’uso degli additivi chimici.

 

Questo regolamento comunitario è in fase di aggiornamento?

Sì, il regolamento attualmente in vigore risale a dieci anni fa ed è in fase di revisione. Sono a confronto varie anime del mondo bio. Molto semplicisticamente, possiamo dire che vi sia un’anima che tende a rafforzare l’approccio di sistema indirizzato alla visione agro-ecologica, già peraltro insito nel bio ed una tendenza maggiormente orientata ad accentuare gli aspetti di qualità con una sorta di “marchio bio”. Al di là di queste considerazione, va comunque sottolineato che l’estate scorsa è stato raggiunto un accordo preliminare tra il Consiglio dell’UE e Parlamento europeo. Il nuovo testo punta a prendere in considerazione alcuni aspetti di particolare importanza, come ad esempio il rafforzamento del sistema di controllo che farà aumentare la fiducia dei consumatori, la costituzione di un sistema di accertamento della conformità che prevede il rispetto delle norme di produzione e di controllo dell’UE per poter esportare un prodotto dichiarato biologico.

 

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Perché i cibi biologici costano di più rispetto a quelli non bio?

Intanto, occorre sottolineare che almeno nella grande distribuzione la differenza di prezzo si sta riducendo visto l’elevato trend di crescita che il bio sta mostrando. I fattori di queste differenze sono svariati. Prima di tutto la resa per superficie di una coltivazione biologica è inferiore alla resa per superficie di un prodotto convenzionale. I concimi naturali che s’impiegano in agricoltura biologica, infatti, mostrano una resa inferiore rispetto a quelli di sintesi e costano di più. L’altro motivo è che i prodotti bio hanno una rete distributiva meno efficiente di quella utilizzata dalla grande distribuzione per i prodotti dell’agricoltura convenzionale, da tutto il mondo, anche se, come in anticipo segnalato, i prezzi in questo settore stanno decisamente scendendo. Parlando poi dei prodotti trasformati provenienti da materia prima bio, i processi per la loro produzione sono particolarmente onerosi per una serie di accorgimenti richiesti e non presenti nei prodotti alimentari convenzionali. Altra questione è che un’agricoltura bio richiede maggiore mano d’opera, una cura particolare nella coltivazione e nell’allevamento, mezzi meccanici e fisici più onerosi per il controllo delle piante infestanti, aumentando i costi. La ricerca e l’innovazione stanno facendo tuttavia molti progressi. L’agricoltura bio potrà infatti ricevere grossi vantaggi dall’agricoltura digitale.

 

In che cosa consiste? 

L’agricoltura digitale punta all’ottimizzazione e alla razionalizzazione di tutti gli input che servono all’agricoltura, dall’acqua ai pesticidi ai fertilizzanti, consentendo di dosare con grande precisione le quantità necessarie. I droni che sorvolano le piantagioni con le tecnologie così avanzate riescono a percepire l’eventuale attacco di parassiti o altri organismi sulla pianta e consentono di intervenire in modo tempestivo e puntuale. Per l’agricoltura bio tutto questo presenta un grande vantaggio: un’agricoltura tecnologicamente avanzata e poco inquinante. Tornando ai costi dei prodotti bio, queste tecnologie una volta che saranno largamente diffuse e disponibili, potranno contribuire a ridurre il divario in termini di costo produttivo dell’agricoltura bio rispetto a quella convenzionale.

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