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MFR20: dal bio alla diversificazione, l’agricoltura mostra la sua resilienza

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Qual è stato l’impatto della pandemia sull’agricoltura italiana? Quali sfide oggi le si parano davanti? E quanto l’approccio sostenibile alla terra è in grado di fornire nuova resilienza, non solo alle imprese agricole ma che alle comunità che le circondano? A rispondere a queste domande sono i protagonisti de “La trasformazione sociale del territorio dopo il COVID-19”, talk organizzato dal quotidiano Rinnovabili.it all’interno della Maker Faire Rome 2020 (digital.makerfairerome.eu).

L’appuntamento ha messo a confronto mondo imprenditoriale, della ricerca e delle associazioni di settore sul rapporto che oggi lega agricoltura ad ambiente, società e territorio. Calando la questione all’interno dell’attuale emergenza. La giornalista Isabella Ceccarini, moderatrice dell’incontro, ha ricordato in apertura la parole pronunciate da Papa Francesco a giugno di quest’anno: “Non possiamo pretendere di rimanere sani in un mondo malato”. La necessità di prenderci cura degli ecosistemi passa anche e soprattutto per la produzione di cibo, ma fare “agricoltura sostenibile”, biologica in primis, rappresenta davvero un’opportunità in momento di crisi come quello attuale? 

Per Francesco Mastrandrea, Presidente ANGA – Giovani di Confagricoltura, la risposta è semplice. In questi mesi le imprese agricole hanno lavorato per garantire una continuità, “ma il blocco del COVID ha dato una sterzata a molte abitudini e aspirazioni”. E nel contempo “ha fatto emergere dei bisogni e delle necessità che forse non sarebbero arrivate prima di 6-8 anni”. Uno dei primi cambiamenti sostanziali introdotti dalla pandemia e dalle misure di lockdown è stato l’aumento delle vendite dirette e di prossimità, tramite l’e-commerce. Ma per molti territori, soprattutto in quelli dove esiste un evidente gap digitale e infrastrutturale, la rivoluzione tecnologica è ancora molto indietro.

In questo contesto, però “ha sempre senso produrre in modo sostenibile. Il biologico è una delle modalità produttive e market oriented che ha caratterizzato l’Italia in molti segmenti importanti”. Un argomento che Mastrandea conosce bene, avendo anche un’azienda olivicola, sulle colline di fronte all’arcipelago delle Isole Eolie, specializzata nella produzione di olio extravergine da cultivar autoctone della Sicilia tirrenica. “Bisogna ragionare su cosa si produce e come lo si produce”, cambiando il modus operandi ma anche evitando di accostare a priori il non biologico al concetto di non sostenibile.

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Il primo passo in questo senso potrebbe essere dare il buon esempio: mostrare che, compiendo delle scelte ecologiche e rispettose della natura è possibile ottenere dei benefici più ampi e non solo per se stessi. Prova ne è il lavoro del Gruppo Lunelli, produttori del notissimo spumante Ferrari e di altre etichette di vini. Le tenute Lunelli hanno aderito al protocollo biologico dal 2009, iniziando certificare le proprie aziende agricole in Toscana, proseguendo con quelle in Umbria e poi quelle trentine (dove il clima è decisamente più sfidante).

“Bisogna fare e d’essere d’esempio, prima di diffondere una certa cultura”, afferma Marcello Lunelli, Vicepresidente del gruppo. “Prima ci siamo assicurati che fosse possibile una agricoltura più rispettosa dell’ambiente e per i contadini stessi”, eliminando pesticidi, erbicidi e chimica di sintesi. “Ora stiamo portando questo segnale alle 660 famiglie che consegnano l’uva alla nostre cantine Ferrari”, mostrando la strada a aiutando a capire come renderlo possibile. “Oggi il 70% dell’uva incantinata dalle cantine Ferrari è biologica o in conversione biologica […] E come noi ci sono tante altre cantine che stanno facendo lo stesso percorso”.

Non solo, per Lunelli il rapporto con il territorio è una delle priorità aziendali. E il biologico, in questo senso, è lo strumento che permette la perfetta integrazioni tra terreni coltivati e comunità. “In Trentino ci sono 500 km di piste ciclabili che passano in mezzo ai nostri vigneti”, aggiunge Lunelli. Vigneti che devono essere trattati e richiedono dunque un’attenzione speciale non solo alla qualità dell’uva ma alla salute di chi si trova in quelle aree, dal turista ai residenti. E per garantire che la tutela ambientale sia sempre alta, il gruppo nel 2015 si è avvicinato alla certificazione Biodiversity Friend, standard a garanzia della tutela del patrimonio biologico naturale. “Questa certificazione ci ha spinto a mettere nei nostri vigneti degli alveari particolari” per misurarne in tempo reale la vivibilità e l’equilibrio con il resto del territorio.

E c’è chi questa consapevolezza l’ha ottenuta in tempi non sospetti, quando il bio non era ancora un trend di mercato. Parliamo di Giuseppina Alfano, imprenditrice agricola, che fa parte di Confagricoltura Donna Sicilia. Alfano gestisce un’azienda limonicola nel comune di Petrosino: 6.000 piante di limone della cultivar femminello zagara bianca, certificate bio dal 1997.  “La scelta di coltivare in bio – spiega l’imprenditrice – è arrivata non solo per ottenere un reddito adeguato ma soprattutto per la volontà di interagire in maniera costruttiva con i cicli naturali e sviluppare un ecosistema sostenibile”.  Una spinta cui si è unita anche la voglia di integrare tradizione e innovazione. “Questa emergenza sanitaria ha interessato tutti i settore produttivi e in particolare l’agroalimentare” che però non si è fermato mai. “Durante la chiusura forzata eravamo in piena attività per la raccolta del primo fiore, affrontando tutte le difficoltà del caso e nel pieno rispetto delle normative”. Per l’azienda il vero ostacolo è arrivato dalla concorrenza straniera, soprattutto quella iberica, e non sempre legale. Dopo un primo periodo di chiusura dei mercati, aumento dei prezzi e incremento degli acquisti “italiani”, la riapertura delle frontiere ha rapidamente invertito la situazione. 

Uno degli espetti emersi dalla crisi è inequivocabilmente la tenuta del sistema nazionale (e non solo) . A spiegarne il motivo è il professore Saverio Senni, del Dipartimento di Scienze agrarie e forestali dell’Università degli Studi della Tuscia. Senni parte da un’importante precisazione: “non esiste un unico settore, esistono ‘le agricolture”, esiste un mondo di diversi contesti produttivi con differenti motivazioni […] per i quali il COVID-9 ha significato molte cose diverse, a seconda del contesto, del periodo o della stagione”. Oggi il comparto comprende una miriade di orientamenti e approcci (convenzionale, biologica, di precisione, verticale, di prossimità, ecc.); e tra questi rientrano anche le attività di diversificazione. In Italia sempre più imprese agricole non si limitano a produrre cibo ma anche servizi, dalla vendita diretta all’offerta ricettiva, dai programmi sociali all’attività didattica per i più giovani. “Io ho sempre pensato alla diversificazione come una stampella per l’impresa”, un modo per trovare del reddito integrativo durante le cattive annate.

Con la pandemia, questa situazione si è ribaltata: l’attività nei campi ha proseguito, con difficoltà più o meno spinte, mentre alcuni servizi si fermavano. In altre parole il comparto ha mostrato una certa resilienza. Cosa significa? A spiegarlo è oggi il progetto SURE-farm, a cui ha il Prof. Senni ha preso parte. L’iniziativa sta analizzando e misurando i sistemi agricoli Europei, attraverso tre chiavi: la capacità di resistere di fronte al problema, adattarsi e trasformarsi. Si tratta di tre qualità presenti in tutti i sistemi valutati dal progetto. “Dentro il DNA dell’impresa agricola c’è una versatilità che negli ultimi decenni ha portato, soprattutto in Italia” alla multifunzionalità. 

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