Nel corso del Forum Food&Beverage, The European House-Ambrosetti ha presentato un rapporto puntuale sui tanti aspetti che riguardano la filiera agroalimentare italiana. Emergono dati positivi e criticità, e sono indicate sei priorità per rilanciare e salvaguardare la competitività del settore
di Isabella Ceccarini
Forum Food&Beverage, ovvero luci e ombre della filiera agroalimentare italiana evidenziate nell’accurato studio di settore svolto da The European House-Ambrosetti.
Parafrasando Ennio Flaiano, potremmo dire che la situazione è grave ma non seria: i problemi esistono, ma secondo La Roadmap del futuro per il Food&Beverage: quali evoluzioni e quali sfide per i prossimi anni presentata da The European House-Ambrosetti si intravede una via d’uscita.
Agroalimentare, settore strategico dell’economia italiana
Sul mercato, nella situazione attuale, pesa la concomitanza di fattori negativi che non si erano mai verificati contemporaneamente: la crisi generata da una pandemia che è tutt’altro che conclusa, l’impennata dei costi delle materie prime, la guerra in Ucraina, l’inflazione in aumento. L’inflazione, che incide negativamente sul potere di acquisto delle famiglie, provoca in automatico una contrazione dei consumi.
Dopo un 2020 molto difficile, con la difficoltà per le esportazioni a causa del Covid e la chiusura del canale HoReCa, l’agroalimentare è riuscito a matenere una posizione soddisfacente. Infatti, per tre anni consecutivi – dal 2019 al 2021 – le performance del Food&Beverage sono state in attivo.
Le cifre che cita Valerio De Molli, managing partner e CEO di The European House-Ambrosetti, parlano chiaro: la filiera agroalimentare «genera un fatturato complessivo pari a 204,5 miliardi di euro (143,8 nel Food&Beverage e 60,7 nell’agricoltura)».
Importanti anche i numeri relativi all’occupazione, 1,2 milioni di imprese e 1,4 milioni di occupati. Il valore aggiunto generato dell’agroalimentare è di 65 miliardi di euro, ovvero il 3,9% del Pil italiano. Come sottolinea De Molli, ampliando lo sguardo all’intera filiera – dalla distribuzione all’HoReCa ai numerosi operatori che ruotano intorno al comparto – si arriva a toccare i 294 miliardi di euro di valore aggiunto: il 16,5% del Pil nazionale.
Esportazioni record nel 2021
Come evidenziato dal rapporto sul Food&Beverage, un traino importante è venuto dall’ottima performance dell’export che nel 2021 ha superato i 50 miliardi di euro (+10,8% rispetto al 2020), il risultato migliore da dieci anni a questa parte. L’Italia, infatti, è leader indiscussa in alcuni settori dell’esportazione mondiale, come il pomodoro (78,4%), la pasta (47%), gli amari e i distillati (40%).
Qual è l’impatto della guerra sugli scambi commerciali? Minore di quanto si potrebbe pensare: nel 2021 gli scambi commerciali con Russai e Ucraina sono stati l’1,9% dell’export complessivo, un valore simile a quello dell’import.
Alcune filiere, tuttavia, ne risentono moltissimo. Prendiamo l’esempio dei cereali e dei fertilizzanti, il cui export è bloccato: ne fanno le spese gli allevamenti zootecnici, che hanno problemi per l’alimentazione del bestiame e anche gli agricoltori al momento delle semine.
Secondo l’analisi di Food&Beverage emergono alcune criticità, come le piccole dimensioni della maggior parte delle imprese.
Questo fatto incide anche sulla minore propensione all’investimento che si attesta sul 2,8% del fatturato, mentre le grandi aziende investono il 7,8% del fatturato, con evidenti ripercussioni sulle prospettive di sviluppo del comparto agroalimentare.
L’Italian Sounding
Un serio problema messo in evidenza da The European House-Ambrosetti è quello dell’Italian Sounding, ovvero i cibi taroccati che all’estero sono venduti come italiani ma che di italiano non hanno nulla.
L’incapacità di difendere la specificità dei prodotti italiani all’estero reca un danno economico enorme e indebolisce il loro posizionamento sui mercati esteri.
I prodotti più imitati sono olio extravergine d’oliva, aceto balsamico, Gorgonzola, pasta di grano duro, Prosecco, pesto, ragù, salame, prosciutto, pizza surgelata, Parmigiano.
Secondo i calcoli di The European House-Ambrosetti, solo per questi prodotti l’Italian Sounding vale il 58% in più dell’export italiano. Sommando i 50 miliardi di chi compra italiano per la qualità con i 52 miliardi di chi compra Italian Sounding (perché guarda solo il prezzo, ma ama l’idea di mangiare italiano) si raggiunge un potenziale di export di 102 miliardi di euro.
Cifre che fanno riflettere. Se pensiamo che nel 2021 il valore delle esportazioni agroalimentari italiane ha raggiunto i 50,1 miliardi, è evidente non solo il danno economico, ma anche il fatto che il finto Made in Italy “vale” più di quello autentico.
Soluzioni? Ambrosetti propone di dotarsi di una visione-Paese condivisa dove l’Italia deve affermarsi come «il Paese di riferimento nello sviluppo delle eccellenze per far vivere meglio il mondo» e la filiera agroalimentare è il soggetto più adatto per realizzare questa idea.
Poi comunicare con efficacia il marchio Made in Italy (logo identitario, campagne di marketing, eventi internazionali dedicati all’agrifood italiano, corner Made in Italy nella grande distribuzione all’estero) e promuovere iniziative di educazione del consumatore (lettura delle etichette, coinvolgimento di studenti stranieri, sinergie con il settore del turismo, favorire la consapevolezza del consumatore sul valore dell’agroalimentare italiano).
Sei priorità per la competitività della filiera
Dal Forum Food&Beverage di The European House-Ambrosetti sono emerse sei priorità per rilanciare e salvaguardare la competitività della filiera agroalimentare italiana: alleggerire la zavorra burocratica per sbloccare gli investimenti e utilizzare al meglio i fondi del PNRR; incentivare, anche dal punto di vista fiscale, il consolidamento del settore; combattere l’Italian Sounding; rafforzare le filiere Made in Italy anche per ridurre la dipendenza dall’estero; accelerare l’adozione di politiche di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici; realizzare politiche di sensibilizzazione ed educazione alimentare a cominciare dai bambini, perché le buone abitudini alimentari si acquisiscono da giovani.