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Allevamenti intensivi di pesce, quanto pesa il loro impatto ambientale?

Gli allevamenti intensivi di pesce, che negli anni hanno ricevuto forti incentivi dall’UE e dalla FAO che avevano puntato sulle risorse marine per aumentare la produzione globale di cibo, si sono rivelati nemici della sostenibilità e hanno compromesso gli ecosistemi in molte parti del mondo. In mancanza di regole chiare, la situazione è sfuggita di mano

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Foto di Tapani Hellman da Pixabay

L’insostenibilità dell’acquacoltura

Qual è l’impatto ambientale degli allevamenti intensivi di pesce? Si parla sempre di quelli di maiali, polli e vitelli ma gli allevamenti intensivi di pesce non sono meno dannosi per la sostenibilità ambientale e per la sicurezza alimentare.

I danni degli allevamenti intensivi di pesce

Si parla poco di acquacoltura, ma i danni ambientali che genera sono molto gravi. Al pari di quelli a terra, gli allevamenti intensivi di pesce sfruttano le risorse naturali e inquinano paradisi naturali. Ma c’è anche un danno sociale ed economico collaterale, perché finiscono per distruggere le piccole economie locali in molte parti del mondo.

Questo stato di cose è illustrato nel documentario Until the End of the World girato dal regista e giornalista Francesco De Augustinis in tre continenti. Il documentario ha richiesto un impegno di tre anni, ed è stato girato con il sostegno di Jornalismfund Europe e Internews’ Earth Journalism Network.

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La spinta di UE e FAO

Questi due siti di informazione avevano già iniziato a documentare una situazione che sembra incredibile: tra il 2001 e il 2020, l’Unione Europea ha destinato 2,9 miliardi di euro allo sviluppo dell’acquacoltura, allineandosi alla posizione della FAO che sosteneva fortemente gli allevamenti ittici.

Il documentario rileva come la FAO abbia posto gli allevamenti di pesce alla base della Blue Transformation, la strategia delle Nazioni Unite per aumentare la produzione globale di cibo con un maggiore ricorso alle risorse marine, e questo ne ha determinato l’aumento esagerato. Un sostegno incondizionato che ha portato enormi investimenti all’industria ittica che sta crescendo a dismisura in tutto il mondo con pesanti effetti collaterali. Una crescita che fa pensare a quando, qualche decennio fa, gli allevamenti intensivi a terra ebbero grande diffusione.

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Un sostegno senza regole chiare

Tuttavia, a fronte del sostegno economico è mancata la definizione di regole chiare per quanto riguarda il rispetto degli standard ambientali. Il risultato è che Italia, Spagna e Grecia – che avevano beneficiato degli incentivi europei – si trovano alle prese con problemi analoghi: inquinamento da sostanze chimiche e danni alla fauna selvatica. Ragione per cui ora le comunità locali si oppongono alla creazione di nuovi allevamenti intensivi di pesce.

Evidentemente è mancata una visione globale sull’ecosistema marino, che non ha calcolato l’impatto degli allevamenti intensivi di pesce sull’ecosistema. Italia, Grecia, Spagna, Senegal, Patagonia cilena: luoghi tra loro distanti, ma accomunati dallo stesso problema, la depredazione delle risorse di un’industria ittica che realizza enormi profitti mentre si dichiara paladina della sostenibilità.

In Africa, ad esempio, proliferano le aziende che producono farine di pesce e olio di pesce per l’alimentazione animale (soprattutto per l’acquacoltura) e acquistano in blocco il pescato direttamente dai pescherecci.

In origine queste aziende acquistavano gli scarti della pesca; oggi non ci sono più abbastanza scarti perché il pesce è diminuito, e non ne rimane a sufficienza per l’alimentazione umana né per i piccoli venditori che lo portavano nei mercati locali. Così viene meno una fonte di sostentamento delle economie locali e anche una fondamentale fonte di proteine per le persone. Le fabbriche di farine di pesce incidono sulla sostenibilità delle comunità anche in un altro modo. Non si seguono più i programmi per il ripristino degli stock ittici e si incentiva l’overfishing con effetti disastrosi sulla riproduzione dei pesci, che ora infatti scarseggiano.  

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Molte specie sono in pericolo

Il leit motiv che ricorre negli allevamenti intensivi di pesce è quello di rendere il sistema alimentare più sostenibile e in grado di fornire cibo a una probabile popolazione di quasi 10 miliardi di persone nel 2050.

Quella del pesce, spiega il documentario, è la produzione alimentare che cresce più rapidamente. L’industria ittica, tra l’altro, asseconda le richieste del mercato che vuole sempre le stesse tipologie di pesce: salmoni, spigole, orate, trote, gamberi, tonni.

Nel 2021 a livello globale la quantità di pesce prodotto in allevamento ha superato la pesca. Non è possibile avere numeri esatti, ma secondo le stime di Compassion in World Farming e Fish Count nel mondo si allevano tra i 40 e i 120 miliardi di pesci, ovvero circa 122,6 milioni di tonnellate (dato FAO, The state of world fisheries and aquaculture 2022).

Quello che impressiona è che negli ultimi trent’anni l’industria ittica è cresciuta a ritmi molto, forse troppo, sostenuti. Oggi molte specie marine sono pescate sopra i livelli di sicurezza, quindi l’industria ittica sta cercando altri sistemi per i produrre mangimi per gli allevamenti intensivi. Il documentario mette l’accento sul diffondersi del degrado ambientale in ogni angolo del Pianeta: nemmeno l’Antartide, che si trova ai confini del mondo, può dirsi al sicuro.