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Cresce la fame nel mondo. È davvero un problema senza soluzione?

Cresce la fame nel mondo. È davvero un problema senza soluzione?
Foto CESVI (Pakistan) di Roger Lo Guarro

Per fermare la fame servono giusta visione e politiche adeguate

+26% in 4 anni. La fame nel mondo cresce a ritmo inarrestabile, mentre sembrano mancare soluzioni praticabili per mettervi un freno.

Ma la fame è davvero un problema senza soluzione, o forse mancano la giusta visione e politiche adeguate?

Milioni di persone sopravvivono grazie all’agricoltura e sono quindi particolarmente sensibili alle variazioni climatiche, che mettono a rischio i raccolti e peggiorano i livelli di fame.

Nel 2023, 399 catastrofi naturali (più di una al giorno) hanno provocato 86.473 morti e colpito 93,1 milioni di persone, causando 202,7 miliardi di perdite economiche.

L’Obiettivo Fame Zero continua ad allontanarsi

L’Obiettivo Fame Zero dell’Agendo 2030 dell’ONU si sta progressivamente allontanando, come confermano i dati del Global Hunger Index 2024, uno dei principali rapporti internazionali sulla fame nel mondo che il CESVI cura per l’Italia.

In 42 paesi il livello di fame rimane allarmante o grave, in 22 paesi la fame è aumentata dal 2016. A livello mondiale il miglioramento è insignificante: l’indice del GHI è passato da 18,8 (2026) a 18,3. Se vogliamo vedere il bicchiere mezzo pieno, questo significa che un progresso è possibile pur se le sfide da affrontare sono difficili e richiedono impegno e determinazione.

Le disuguaglianze strutturali sono aumentate proprio nei paesi in cui la fame già colpiva duramente le popolazioni. Tra le cause più impattanti si inseriscono i cambiamenti climatici, i prezzi troppo alti dei prodotti alimentari, le interruzioni del mercato, gli oneri del debito nazionale, le disuguaglianze di reddito e le recessioni economiche.

Per quanto riguarda i conflitti, che hanno ovviamente un peso determinante sia per l’economia che per la fame, va fatta una considerazione a parte: le guerre moltiplicano la gravità delle crisi alimentari, che molto facilmente fanno il salto trasformandosi in carestie. La fame, inoltre, è sempre più utilizzata come un’arma.

L’Africa è il continente più colpito dalla fame

733 milioni (oltre 152 milioni in più rispetto al 2019) persone hanno sofferto la fame nel 2023, ovvero una persona su undici nel mondo e una su cinque in Africa.

Quasi 3 miliardi di persone non hanno potuto permettersi una dieta sana a causa dell’aumento dei prezzi alimentari e della crisi del costo della vita.

L’Africa subsahariana ha le più alte percentuali di denutrizione e mortalità infantile; l’Asia meridionale ha il più alto tasso di deperimento infantile

I paesi in condizioni di miseria, denutrizione e malnutrizione allarmanti sono Somalia, Yemen, Ciad, Madagascar, Burundi, Sud Sudan, Gaza, Haiti, Burkina Faso, Mali. Tuttavia, come si è registrato in Bangladesh, Mozambico, Nepal, Somalia e Togo, il progresso è un obiettivo realizzabile.

In due terzi dei paesi esaminati nel Global Hunger Index 2024 la denutrizione non ha registrato miglioramenti o è addirittura aumentata. Secondo le proiezioni attuali, almeno 64 paesi non raggiungeranno livelli di fame bassi né l’Obiettivo Fame Zero entro il 2030. In questa data 582 milioni di persone saranno ancora cronicamente denutrite, la metà delle quali in Africa, che si conferma il continente più colpito.

Il paradosso femminile

Le disuguaglianze di genere incidono anche sui livelli di fame.

Spiega Stefano Piziali, direttore generale di CESVI: «La disuguaglianza di genere è una delle minacce più pervasive allo sviluppo sostenibile e alla realizzazione del diritto al cibo.

Le donne sono infatti protagoniste di un vero e proprio paradosso: sono oltre il 60% delle persone che soffrono la fame pur essendo un pilastro della sicurezza alimentare delle loro famiglie.

Oltre il 43% della forza lavoro agricola nei Paesi in via di sviluppo è infatti femminile, anche se le donne possiedono una minima percentuale delle terre agricole e hanno accesso limitato a risorse come sementi, fertilizzanti e credito».

L’insicurezza alimentare delle donne ricade inevitabilmente sui bambini, in un ciclo intergenerazionale di fame e povertà che inizia addirittura prima della nascita: oltre 9 milioni di donne e ragazze soffrono di malnutrizione acuta in gravidanza e durante l’allattamento.

La situazione peggiora ulteriormente con la crescita: oltre 36 milioni bambini sotto i 5 anni sono malnutriti e tra questi oltre 9 milioni soffrono di malnutrizione grave e hanno bisogno di cure urgenti.

«Secondo le stime della FAO, colmare i divari di genere nei sistemi agroalimentari potrebbe aumentare il PIL globale di quasi 1.000 miliardi di dollari, riducendo di 45 milioni il numero di persone afflitte dall’insicurezza alimentare».

Il cambiamento è possibile solo a precise condizioni: modifica delle norme di genere discriminatorie, assegnazione di risorse e opportunità per correggere le disuguaglianze di genere, ridurre il divario di genere nella partecipazione delle donne alla politica e nei processi decisionali.

Il diritto al cibo è un diritto umano

Il diritto al cibo è riconosciuto come diritto umano a livello internazionale, ad esempio nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (1948) e nella Convenzione Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e Culturali (1976).

Eppure questo diritto sancito sulla carta non è salvaguardato da strumenti applicativi adeguati.

Il Global Hunger Index 2024 mette di fronte alla necessità di un’azione concreta e incisiva per contrastare la fame. Dobbiamo mettere «i diritti umani in primo piano nell’attuazione delle politiche sul clima, la nutrizione e i sistemi alimentari.

In particolare, è fondamentale rafforzare il senso di responsabilità nei confronti del diritto internazionale e l’applicabilità del diritto a un’alimentazione adeguata, promuovere approcci trasformativi di genere ai sistemi alimentari e alle politiche e programmi climatici e fare investimenti che integrino e promuovano la giustizia di genere, climatica e alimentare, ridistribuendo le risorse pubbliche in modo da correggere le disuguaglianze strutturali».

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