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A Gorgona i detenuti coltivano gli olivi: il lavoro come recupero

Photo by Wolfgang Hasselmann on Unsplash

di Isabella Ceccarini

Da dove è partita l’idea di questo progetto?

Mi sono sempre occupata di progetti sociali anche nella mia azienda agricola Santissima Annunziata (Livorno). Un giorno Confagricoltura mi ha portato sull’isola per avere un parere sul frantoio. Mi sono innamorata di Gorgona e ho cominciato a pensare di fare qualcosa, poi piano piano si è andato delineando questo progetto.

Gorgona è un posto ancora incontaminato e ricco di biodiversità, ci sono 40 varietà di rosmarino. È un’isola al centro della campagna, nel senso che c’è solo una piccola spiaggia dove arrivano le motovedette e tutto il resto è a picco. Questo permette di concentrarsi di più sulla parte botanica rispetto all’idea di spiaggia o di mare con le calette. Il mare fa da liquido amniotico che circonda Gorgona e la isola da tutto il resto.

Mi ha incuriosito il nome del progetto, “Recto-Verso”. Sembrano le due facciate del medesimo foglio.

Il significato è proprio questo. Si vive in una società complessa, lo dico sempre ai detenuti anche quando faccio colloqui con loro, quando lavoriamo insieme. È facile avere pregiudizi nei confronti di qualcuno che ha già subito un giudizio, eppure può succedere di venire in contatto con persone che hanno commesso un reato ma non sono in prigione.

“Recto-Verso” rappresenta la complessità di una società dove ci sono gli opposti, necessari uno all’altro. È come una pagina dove sono scritte entrambe le facciate, se ne manca una il testo rimane incomprensibile. Con questo progetto auspico che ci sia una soddisfazione di entrambe le facce, ovvero i detenuti e le aziende. Da un lato i detenuti vengono formati: ora partirà un corso di degustazione dell’olio legato a percorsi oleoturistici, dove i detenuti faranno le guide sull’isola e illustreranno il nostro olio. Dall’altro le aziende non hanno personale formato. Magari ci sono ragazzi bravissimi che hanno fatto l’istituto agrario o un corso di potatura, ma manca sempre qualcosa. I detenuti hanno dalla loro una ricchezza immensa che è il tempo, che a molti di noi manca. Hanno moltissimo tempo da investire nella formazione, in questo modo quando finiscono di scontare la pena sono in grado di trovare subito un lavoro.

Qual è l’atteggiamento delle aziende? Hanno difficoltà ad accettare ex-detenuti o è più importante il fatto che siano formati?

Le resistenze e le diffidenze ci sono, ma credo che sia abbastanza normale. C’è anche chi ha il rifiuto totale, forse la società non è proprio buonissima.

Forse dipende dal fatto che i detenuti che sono a Gorgona stanno scontando pene per reati importanti?

Certo, però è anche vero che Gorgona rappresenta una sorta di “tappa premio” in un percorso di carcerazione, essendo una piccola isola dove c’è una convivenza anche molto libera. Non a caso viene chiamata “l’isola dei diritti”. Dalla mattina alla sera possono stare fuori dal carcere e sono impiegati in vari ambiti: non ci sono solo io, c’è il marchese Frescobaldi che fa il vino, c’è un progetto sulle ortive, ci sono le api, c’è il panificio. Qui vengono quelli che in un certo senso sono ritenuti meritevoli.

Esperienze all’estero (specie nel nord Europa) di detenzione abbinata al lavoro e a discreti margini di libertà hanno dato buoni risultati in termini di recidiva. Dopo Gorgona che succede?

I livelli di recidiva si abbassano notevolmente, annullarli sarebbe un’utopia. L’esperienza fatta a Gorgona è molto diversa da istituti dove c’è una convivenza forzata in celle affollate, e qui iniziano subito un percorso lavorativo. Per loro c’è una motivazione, vivono il percorso previsto dalla Costituzione.

Il progetto è stato replicato in altri penitenziari?

Ci sono vari progetti in Italia. Ad esempio vicino a Cuneo si fa il vino, alcuni sono inseriti nelle cucine dei ristoranti, a Roma (a Rebibbia) ci sono una torrefazione e un panificio-pasticceria, a Padova c’è una pasticceria, Volterra ha un caseificio e ha un progetto di olivicoltura. Ora mi piacerebbe passare al secondo step. Nel 2023 vorrei costruire una rete con altre realtà simili per avere maggiore visibilità e magari abbattere i costi, scambiarci informazioni, facendo reti di acquisto per beni che possono essere utili a tutti.

Cosa ha significato vincere il premio di Confagricoltura e JTI Italia per l’agricoltura sociale “Seminiamo valore”?

Mi ha fatto sentire una responsabilità maggiore nei confronti di chi mi ha conferito il premio. Mi ha dato maggiore visibilità e anche per i detenuti – a cui portavo i ritagli dei giornali o facevo sentire le interviste – è stato molto importante. Ho misurato il valore di progetto non tanto su un ritorno economico quanto su un “benessere interno lordo” generato dal progetto, e il premio lo ha aumentato tanto. Inoltre è stato importante dal punto di vista economico: ci ha permesso di acquistare un frantoio sull’isola per fare l’olio a filiera corta completando il ciclo di produzione sull’isola.

Il prodotto finale è un olio biologico? È tracciato?

Stiamo chiedendo la riduzione del periodo di conversione perché per il biologico ci vogliono tre anni. Essendo l’isola un posto non contaminato e non avendoci mai fatto niente, dovrebbe venire l’ente certificatore del biologico e permetterci di etichettare l’olio come biologico anziché in conversione. Questo dà anche un valore diverso. Poi si uscirà con l’etichetta biologico in blockchain dove l’ologramma sull’etichetta permetterà di ricostruire tutte le fasi di produzione.

La collaborazione con l’Associazione dei Produttori Olivicoli Toscani continua?

Certo, è fondamentale. APOT organizza corsi con personale altamente formato, è una sinergia. Pensare di fare imprenditoria da soli è impossibile, ai buoni risultati contribuiscono le buone reti. Per noi si tratta di fare rete tra chi si occupa di progetti di agricoltura sociale e di benessere all’interno dei penitenziari, ma soprattutto di dare una visibilità ai detenuti a fine pena o a quelli in affidamento con l’art. 21 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (che regola il lavoro all’esterno del penitenziario) che cercano una sistemazione lavorativa al di fuori.

Photo by Lucio Patone on Unsplash

A proposito di progetti come questo di Gorgona, abbiamo chiesto a Pina Romano, responsabile dell’agricoltura sociale di Confagricoltura, quale sia il ritorno effettivo per i detenuti in termini di recupero e recidiva

I dati di uno studio effettuato dall’Università Bocconi dicono che il lavoro riduce il tasso di recidiva dei detenuti dal 73% al 19%. Un risultato che spinge a continuare su questa strada. Prima di tutto occorre formare e informare, poi le procedure sono complesse per arrivare a mettere insieme gli strumenti utili per rendere operative le leggi. Le leggi per consentire ai detenuti di lavorare ci sono, quello che davvero serve è snellire le procedure burocratiche che sono un ostacolo.

Ci sono anche leggi che consentono ai datori di lavoro di sgravarsi degli oneri (ad esempio la legge 22 giugno 2000, n. 193 – “Norme per favorire l’attività lavorativa dei detenuti”, o legge Smuraglia, prevede sgravi contributivi e fiscali per le imprese o cooperative che assumono detenuti in stato di reclusione o ammessi al lavoro all’esterno).

Confagricoltura ha molto insistito sulla dignità del lavoratore, a cominciare dalla sua retribuzione. Come imprenditori agricoli ci fregiamo di offrire un lavoro professionalizzante che consente, come a chi esce dal carcere di Gorgona, di trovare un’occupazione. In agricoltura c’è bisogno di lavoratori, è un lavoro sufficientemente semplice se non arriviamo a mansioni troppo tecniche, per cui è facile da apprendere e consente una possibilità di guadagno sia durante la detenzione, sia dopo.

Formare una persona e darle il giusto compenso dovrebbe far parte del percorso di recupero.

L’articolo 27 della Costituzione dice che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. Anche in questo caso, quindi, la dignità deve essere misurata attraverso il lavoro. In questo modo il detenuto ha una motivazione in più, sente di fare un lavoro utile perché retribuito. Secondo noi è un modo per dare dignità e consapevolezza, e permettere ai detenuti di stare nella società come le altre persone.

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