Al 10 gennaio l’equivalente idrico nivale (SWE) – l’indicatore della quantità di acqua stoccata in montagna sotto forma di neve – si fermava a 1,71 miliardi di metri cubi (Gm3). La media storica è di 4,63 Gm3
Se non è scarsa, è effimera. Nell’ultimo mese la neve su Alpi e Appennini è caduta. Ma o è stata molto meno della media, o si è sciolta rapidamente. In entrambi i casi, il risultato è lo stesso. Gli accumuli sono decisamente ridotti. E il deficit di neve a livello nazionale, a metà gennaio 2025, segnava -63% rispetto al periodo 2011-2023.
Numeri che ricordano da vicino la situazione del 2021-2023, quando di precipitazioni nevose ce ne sono state ben poche e la siccità ha colpito duramente per tutto l’anno gran parte della penisola.
Deficit di neve nel 2025, cosa dicono i dati?
Secondo i calcoli della Fondazione CIMA, al 10 gennaio l’equivalente idrico nivale (SWE) – l’indicatore della quantità di acqua stoccata in montagna sotto forma di neve – si fermava a 1,71 miliardi di metri cubi (Gm3). La media storica è di 4,63 Gm3.
Alla stessa data del 2024, anno in cui l’andamento della neve in Italia è tornato nella normalità dell’ultimo decennio, lo SWE era a 3,24 Gm3 (-39%). Anche nel 2023 era più alto, a 2,35 Gm3, mentre nel 2022 sfiorava i 4 Gm3 (ma è rimasto poi quasi costantemente sotto media fino a fine stagione).
“Le cause del deficit non sono uniformi lungo il territorio”, spiega Francesco Avanzi, ricercatore di Fondazione CIMA. “Sulle Alpi, la mancanza di precipitazioni, sta rallentando la formazione del manto nevoso, nonostante temperature relativamente fresche. Sulle zone Appenniniche, invece, le piogge sono state più abbondanti, ma sono state vanificate da temperature più alte della media, portando la neve a fondere rapidamente”.
Po e Adige, i due principali bacini afferenti all’arco alpino, hanno un deficit di neve di circa -61%. Mentre sugli Appennini la situazione continua a essere ben più critica. Il Tevere segna -88%, anche se poche settimane fa era su valori vicini alla media: colpa della neve “effimera” che si è fusa rapidamente.
Insomma: nonostante le temperature medie negli ultimi mesi siano state leggermente più basse rispetto agli ultimi anni, ciò non si è tradotto in precipitazioni più significative o durature. La Fondazione CIMA parla di una “stagione al rallentatore” iniziata tardi, con valori sempre sotto media: un trend che “riflette la mancanza di eventi nevosi significativi nonostante temperature un po’ più basse rispetto agli ultimissimi anni”.
In alcune aree, l’inverno è iniziato 1 mese in ritardo. E ciò che oggi è comune sugli Appennini in termini di neve effimera, avvertono i ricercatori della Fondazione, in futuro diventerà la normalità anche sulle Alpi a causa dei cambiamenti climatici.
“Per molte regioni italiane, l’inizio di questo inverno si colloca tra i peggiori per neve al suolo dal 2011. Ce lo dicono i dati. Le condizioni registrate ricordano, inoltre, da vicino quelle di anni critici come il 2016, il 2022 e il 2023”, sottolineano i ricercatori.