Greenpeace e Stamp Out Poverty presentano l’architettura di una possibile tassa per le major fossili parametrata alle emissioni generate dai loro prodotti. Nel 2023 avrebbe raccolto 15 miliardi di dollari. Abbastanza per dare risposte concrete alle perdite e i danni causati dagli eventi estremi
Una piccola tassa sugli extra profitti delle 7 compagnie fossili più grandi coprirebbe di 20 volte il fabbisogno annuo del fondo Onu per le perdite e i danni causati dagli eventi estremi ai paesi più vulnerabili. La proposta sull’introduzione di questa tassa sui danni climatici arriva mentre la Cop29 di Baku è sempre più incagliata sul tema della finanza climatica e il G20 di Rio ha battuto un colpo sulla lotta alla povertà (andando verso una tassa sui super-ricchi) ma non sulle risorse per combattere la crisi climatica. A presentarla è Greenpeace, in un rapporto scritto insieme a Stamp Out Poverty e rilasciato il 18 novembre.
Tassa sui danni climatici: cos’è, quanto vale, è fattibile, a cosa serve
Le due associazioni propongono una Climate Damages Tax ispirata al principio “chi inquina paga”. Che cos’è la tassa sui danni climatici? La tassa si applicherebbe alle grandi compagnie petrolifere e del gas. Sarebbe calcolata in base alle emissioni di CO2 equivalenti generate dall’uso dei combustibili fossili estratti e venduti dalle major.
L’idea è che anche un’aliquota molto bassa riuscirebbe a mobilitare risorse importanti. Quanto vale la tassa sui danni climatici? Nella configurazione immaginata dal rapporto, le 7 major fossili dovrebbero versare ogni anno 5 dollari per ogni tonnellata di CO2 equivalente che generano. Col tempo, la tassa crescerebbe in modo da disincentivare ulteriore produzione fossile.
Di quanto denaro l’anno stiamo parlando? Per il 2023, in base alla produzione annuale delle 7 compagnie, il rapporto calcola che la tassa avrebbe fruttato un po’ più di 15 miliardi di dollari.
Ma quanto inciderebbe questa tassa sui guadagni delle major? Sempre rispetto al 2023, le compagnie hanno guadagnato circa 150 miliardi di dollari cumulativamente. La tassa sui danni climatici inciderebbe per circa il 10% dei guadagni. Almeno al principio. Ipotizzando un aggiustamento annuale dell’inflazione del 2%, in 3 anni la tassa più che raddoppierebbe a oltre 37 miliardi di dollari, supponendo una riduzione annuale del 10% delle emissioni.
Chi dovrebbe raccogliere la tassa? È uno dei punti che più inficia la fattibilità della proposta, se non affrontato adeguatamente. Il rapporto suggerisce che la tassa dovrebbe essere raccolta a livello nazionale, visto che molti paesi hanno già procedure attive per raccogliere entrate di questo genere dalle compagnie fossili.
A cosa servirebbe la tassa sui danni climatici? Nell’immediato, la tassa garantirebbe risorse sufficienti per rispondere a molte delle emergenze generate dall’impatto degli eventi climatici estremi nel mondo. È proprio su questo tema, che va sotto il nome di loss & damage, che la diplomazia climatica sta lavorando da alcuni anni.
Dal 2023 è operativo il fondo Perdite e Danni creato alla Cop27 di Sharm el-Sheikh, ma i contributi (volontari) da parte degli Stati scarseggiano. E i paesi più ricchi non vogliono che il tema loss & damage sia incluso nel nuovo obiettivo di finanza climatica post 2025 in discussione alla Cop29 di Baku.