La maggior parte delle multinazionali non sta riducendo l’impatto ambientale della moda e non è abbastanza trasparente con il pubblico
Il rapporto di Fashion Revolution sull’impatto ambientale della moda
Quasi un quarto delle più grandi aziende del fashion non ha piani pubblici per la decarbonizzazione. L’impatto ambientale della moda è ormai noto e criticato. Contribuisce a problemi come la contaminazione delle acque con sostanze chimiche pericolose e la produzione eccessiva di rifiuti. Eppure, non sembra che le aziende responsabili di tutto questo abbiano preso sul serio la preoccupazione pubblica e politica per le ricadute globali della fast fashion.
A mettere i colossi del comparto sotto i riflettori ci pensa il rapporto “What Fuels Fashion?” del movimento Fashion Revolution ha valutato 250 grandi marchi e rivenditori in base alla loro trasparenza e impegno verso la sostenibilità. Per farlo ha preso in esame 70 criteri, tra cui obiettivi di emissione e utilizzo di energie rinnovabili. Molti marchi, come Urban Outfitters e Dolce & Gabbana, hanno ottenuto punteggi bassissimi, mentre pochi, come Puma e Gucci, hanno raggiunto livelli relativamente alti di sostenibilità. Gli autori del rapporto, per questo, chiedono maggiori investimenti in energia pulita e supporto per i lavoratori. Evidenziano infatti che le aziende hanno i mezzi per contribuire a mitigare la crisi climatica e ridurre la povertà.
Quali sono i fattori di impatto ambientale della moda
Il rapporto rileva che solo 117 marchi hanno fissato obiettivi di decarbonizzazione, ma molti di questi non mostrano progressi significativi. L’86% delle aziende non ha un piano per eliminare gradualmente l’uso del carbone e il 94% non ha obiettivi pubblici per l’energia rinnovabile. Inoltre, solo il 43% delle aziende è trasparente sull’origine dell’energia che utilizza.
C’è anche una mancanza di responsabilità riguardo alla sovrapproduzione di abiti, con il 89% dei marchi che non rivela quanti vestiti produce ogni anno.
Il rapporto sottolinea anche l’impatto della crisi climatica sui lavoratori della filiera. Paesi produttori come il Bangladesh, ad esempio, sono gravemente colpiti da eventi meteorologici estremi. Solo il 3% dei marchi sostiene finanziariamente questi lavoratori.