La storia di Marco Caprai, imprenditore illuminato ma pragmatico, dimostra che l’agricoltura etica esiste e può dare luogo a esperienze replicabili e di successo. Non parliamo di un mondo bucolico, ma di produrre cibo sano per le persone rispettando le regole. Il resto non è agricoltura
Marco Caprai, imprenditore illuminato e pragmatico
Abbiamo incontrato Marco Caprai a margine del Seminario Estivo di Fondazione Symbola che lo ha premiato come imprenditore illuminato.
Marco Caprai ha già ricevuto due premi prestigiosi. Il Presidente Mattarella gli ha conferito il titolo di Ufficiale al Merito della Repubblica Italiana (una onorificenza per l’imprenditoria etica), l’UNHCR – Alto Commissariato dell’ONU per i rifugiati – gli ha assegnato il riconoscimento “Welcome. Working for Refugee Integration”.
Questo fa della Arnaldo Caprai di Montefalco (Perugia) l’unica cantina italiana premiata dalle Nazioni Unite, che ha saputo trasformare l’accoglienza in una opportunità per la cantina e per le persone.
Ma l’azienda è anche produttrice di un rosso robusto apprezzato in tutto il mondo, il Sagrantino. Per non dire del bianco Grecante, un grechetto in testa alle classifiche internazionali.
Tuttavia, Marco Caprai non è solo un imprenditore etico, è anche molto pragmatico: per lui non è questione di buonismo, ma di carenza di manodopera in agricoltura, un settore che agli italiani sembra interessare poco.
In questi anni ha dato lavoro a circa 300 persone che in Italia sono in transito, resta solo il 40-50%.
Cosa rappresentano questi premi, sia per te che per il mondo del vino?
Quello di Mattarella è stato un premio che ha segnato il taglio del cordone ombelicale con mio padre. È un premio mio, che è nato insieme alle persone che collaborano con me e gestiscono questa situazione complessa. Direi che ha segnato la mia definitiva emancipazione.
Per il mondo agricolo è un buon esempio, perché purtroppo a volte è vittima di casi criminali che finiscono sulle cronache. Per il mondo del vino la situazione è un po’ differente: una parte lavora con marginalità che obbligano a una responsabilità sociale diversa.
C’è un discorso che coinvolge l’intera filiera agroalimentare: se si cerca sempre di pagare il meno possibile il sistema non può reggere. Il mondo agricolo chiede da tempo una legge a tutela del valore minimo del prodotto.
Purtroppo gli operatori senza scrupoli danneggiano la parte buona dell’agricoltura. Il discorso è molto complesso, per questo da tempo chiediamo alla politica una regolamentazione a tutela del sistema: sotto un certo prezzo non ci può essere un prodotto agricolo disponibile.
Il mondo agricolo, da parte sua, deve fare uno sforzo di innovazione, per ridurre le inefficienze e cresce di dimensione, perché la microimpresa – salvo casi straordinari – non ce la può fare.
Quando si racconta che in Italia esiste un milione di imprese agricole, si racconta una cosa non vera.
Più di 350mila imprese non hanno nemmeno la partita Iva: non possiamo chiamarle imprese.
Le imprese che crescono sono quelle che superano i 20 ettari. Tra qualche anno saranno necessari 50 o 100 ettari, perché sarà difficile gestire il personale e macchinari sempre più sofisticati e più costosi che le aziende di piccolissime dimensioni non potranno utilizzare. Sarebbe uno spreco enorme di risorse.
Quindi dobbiamo andare verso un modello agricolo che tenga insieme la dimensione culturale e le efficienze economiche.
La proposta europea di produrre di meno tenendo i terreni a riposo è giusta o sbagliata? Mettendosi dalla parte del consumatore, è una politica che va bene per l’ambiente, ma poi siamo obbligati a comprare cibi da paesi che non rispettano le nostre regole giustamente stringenti.
Anche noi siamo dalla stessa parte. Abbiamo combattuto questa proposta. Si tratta di rispettare le regole.
Il primo soggetto che ha a cuore la sostenibilità è l’agricoltore, che è sostenibile a prescindere: se sforza il campo, sa che l’anno dopo la resa sarà minore.
È ovvio che esistono anche persone non corrette, proprio per questo il vero problema è il rispetto delle regole della buona agricoltura. Esiste la possibilità di fare bene le cose.
L’Italia è un paese particolare: abbiamo meno di 10 milioni di ettari coltivabili, l’Ucraina è un gigante agricolo con 22 milioni di terra irrigua che può far saltare il bilancio agricolo dell’Europa in un attimo. Produceva cereali di qualità minore che vendeva nei mercati del centro Africa perché il prezzo era accettabile.
Nell’ultimo anno, il nuovo scenario ha causato lo sconquasso che poi ha portato alle proteste dei trattori, alla messa in discussione della politica agricola europea che ha relegato la produttività in secondo piano.
Un’azienda che non guarda alla produttività è un’azienda che muore.
Tornando ai premi che hai ricevuto, dimostri che l’agricoltura ha una capacità di integrazione e di superamento delle differenze in chiave produttiva e non assistenziale. Alle persone che vengono in azienda insegni l’italiano, insegni a lavorare, le metti in regola: dai loro gli strumenti per inserirsi nella società.
All’inizio arrivano con biciclette un po’ vecchiotte, poi con quelle più tecniche, con la pedalata assistita, poi con il motorino e quelli che hanno la macchina sono i leader del gruppo.
Siamo partiti con una collaborazione con Umana, che ha la professionalità per seguire i bandi, i progetti, etc. ed è una partnership molto positiva.
Noi li segnaliamo, poi vengono presi in carico da Umana che li inserisce in un progetto che è già in essere e ce li rimanda formati, a cominciare da un corso di lingua italiana e magari anche la patente.
Il progetto di accoglienza dei rifugiati era iniziato nel 2016 grazie alla segnalazione di un sacerdote e alla Caritas di Foligno, poi è andato avanti in modo autonomo, con il passaparola dei migranti. A distanza di anni qual è il bilancio?
È molto positivo. Mentre tante aziende hanno difficoltà a reperire il personale, noi siamo considerati in un certo senso la “prima scelta”. È una realtà di coesione sociale, ma anche un laboratorio.
Una convivenza complessa di circa 23 nazionalità diverse per le quali cerchiamo di creare dei gruppi omogenei che arrivano dall’Africa, dall’Est Europa, dal Pakistan, da Cuba, da Santo Domingo. Abbiamo nigeriani musulmani e nigeriani cattolici. Però, per esempio, per i nigeriani musulmani avere un capo donna è un problema.
Abbiamo creato un gruppo di pakistani che vengono comandati da Islamabad, arrivano e partono e non sai perché. Il vero caporalato è lì, non in Italia. Con gli smartphone sono in contatto con tutta la loro rete, oggi queste criminalità hanno la sede laggiù.
Può capitare anche la mela marcia: un paio di volte abbiamo collaborato con il commissariato perché uno lavorava da noi la mattina e poi faceva un secondo “lavoro”. Però il contratto agricolo permette un certo controllo e si può mettere fuori chi si comporta male.
Secondo te i consumatori premiano il fatto che Caprai è un’azienda virtuosa?
Non abbiamo visto grandi cambiamenti, però credo che in generale le aziende che hanno un comportamento virtuoso hanno una reputazione positiva, un valore più elevato.
E poi non tutti apprezzano il nostro comportamento. Qualcuno ci ha rimproverato di dare lavoro ai migranti anziché agli italiani. La realtà è che gli italiani in campagna non vogliono lavorare, non possiamo fare a meno dei lavoratori stranieri, ma la burocrazia è un problema. La legge Bossi-Fini è obsoleta.
Non abbiamo intrapreso questa strada perché siamo buoni e basta, abbiamo fatto quello che serviva all’impresa, dobbiamo capire che non c’è alternativa.
In Italia c’è una drammatica crisi demografica e lo spopolamento dell’Appennino è un fatto: situazioni che vanno gestite anche con l’aiuto delle istituzioni.
Vino e innovazione sono un binomio vincente in una prospettiva di sostenibilità ambientale?
Per forza. Di questo siamo profondamente convinti. Già nei primi anni Duemila abbiamo cominciato a muoverci in questa direzione.
Abbiamo adottato macchine a recupero per l’utilizzo dei fitofarmaci, che dovrebbero essere obbligatorie, salvo particolari condizioni di impossibilità determinate magari dal tipo di terreno (ad esempio, in caso di pendenze molto elevate).
Gli investimenti dovrebbero andare in direzione delle tecnologie intelligenti, come la macchina a recupero che da una parte spruzza il prodotto, dall’altro lo aspira. All’inizio della fase vegetativa, quando si fanno i primi trattamenti e hai 10-20 centimetri di foglia, recuperiamo il 90-95% del prodotto.
Consumiamo meno di 20 litri di miscela per ettaro. Per assurdo, se spennelli tutte le foglie con un pennellino ne consumi di più. Quando ho iniziato si parlava di 1000 litri per ettaro, oggi siamo a 20 litri per ettaro. Questo significa sostenibilità ambientale ed economica.
Il nostro trattamento fa aderire alla foglia le microparticelle distribuite grazie a macchine innovative che funzionano bene anche in condizione di vento. Hanno due “scudi” per cui la deriva è molto limitata e non si danneggia una eventuale coltivazione vicina alla tua.
Abbiamo acquistato la prima macchina nel 2005. Poi abbiamo partecipato a un DSS (Decision Support Systems) con l’Università Cattolica di Piacenza che è stato venduto alla BASF dalla startup dell’Università (vite.net, uno strumento web interattivo che supporta la coltivazione della vite secondo i principi dell’agricoltura sostenibile e di precisione).
Dopo 15 anni, possiamo dire che ha una capacità predittiva gigantesca: prende i dati dalle centraline meteo sul territorio e le previsioni dei satelliti internazionali, li mixa con il suo data base e con i dati che tu hai inserito.
Calcola la resistenza del trattamento che hai fatto rispetto alle condizioni climatiche che si sono verificate e ti dice quando e se trattare o non trattare una coltivazione.
Il cambiamento climatico incombe sull’agricoltura, che più di tutti ne subisce gli effetti.
Guardiamo l’andamento delle ultime quattro stagioni. Nel 2021 le gelate primaverili hanno colpito tutta l’Europa, nel 2022 la siccità è stata drammatica, nel 2023 abbiamo avuto un’alluvione.
Abbiamo a che fare con fenomeni sempre più estremi che non vanno in una sola direzione. Quest’anno, dall’Appennino in giù, la situazione è abbastanza positiva, mentre nel Nord-Ovest la situazione è simile a quella dell’anno scorso nel Centro-Sud.
Non riescono a sconfiggere la peronospora perché non c’è una finestra di tempo abbastanza lunga per trattare le vigne. Sia i prodotti tradizionali sia quelli di contatto come quelli del biologico non funzionano perché la pioggia lava via tutto.
L’Europa ha fermato gli investimenti nella ricerca sui fitofarmaci, stiamo iniziando ad accusare un ritardo di circa un decennio, se ci saranno prodotti nuovi non arriveranno prima di 10-15 anni, di conseguenza andremo avanti con prodotti vecchi o fatti per altri paesi.
Ma in altri paesi la ricerca va avanti.
Non si capisce dove vuole andare l’Europa.
La PAC è stata distrutta dal disaccoppiamento: prima il premio andava insieme al prodotto, ora è a superficie. E così si registrano abbandoni, coltivazioni fatte male, gli uliveti sono quasi abbandonati, la produzione è complessivamente in decadenza.
Eravamo una potenza agricola, tanto è vero che siamo usciti dal disaccoppiamento per gli enormi stoccaggi di Bruxelles di prodotti agricoli. Ora, finiti gli stoccaggi, siamo deficitari su tutto. A parte il vino, compriamo tutto (il 70% dell’olio arriva dall’estero).
Tra l’altro, l’abbandono del territorio comporta un aumento esponenziale della fauna selvatica e l’agricoltore paga il conto per tutti.
Per “rubare” una frase cara a Ermete Realacci, ideatore e anima di questo Seminario Estivo di Symbola, secondo te essere buoni conviene?
Secondo me sì, e questo progetto ne è la dimostrazione.
L’accordo con Umana è uno step in più del percorso, dal 2013 siamo anche aula didattica di un ITS, con l’ITS di Perugia stiamo realizzando il primo vigneto digitale.
L’agricoltura ha bisogno di formazione, cambia. Non è un’immagine bucolica, è produrre cibo sano per le persone rispettando le regole. Il resto non è agricoltura.