La normativa sul green public procurement è applicata solo da 6 stazioni appaltanti su 10. Per metà degli enti il problema principale è la stesura dei bandi di gara: mancano le competenze tecniche per integrare i criteri ambientali minimi in vigore dal 2016. In 4 casi su 10 viene segnalata mancanza di formazione del personale. L’altro grande neo è il mancato monitoraggio dell’esito delle gare: solo il 17% delle stazioni appaltanti lo svolge
Gli appalti pubblici verdi potrebbero avere un effetto leva sul mercato e diventare motore della transizione
Solo il 62% della pubblica amministrazione in Italia adotta le politiche necessarie per garantire appalti pubblici verdi. Fa meglio la PA dei comuni metropolitani, con una media del 79%. Mentre gli enti gestori di aree protette sono quelli più in difficoltà nell’applicare la normativa. Il green public procurement è un volano per stimolare la transizione ecologica in molti settori e le sue carenze rendono più farraginoso il processo.
È la fotografia scattata da Legambiente nel rapporto annuale sugli appalti pubblici verdi. A 8 anni dall’entrata in vigore della normativa, in particolare i criteri ambientali minimi (Cam), l’applicazione procede ancora con “il freno a mano tirato”, sottolinea l’associazione del Cigno verde.
Nel mirino finiscono soprattutto i Cam, obbligatori dal 2016. I nuovi requisiti ambientali definiti per le varie fasi del processo di acquisto hanno l’obiettivo di individuare la soluzione progettuale, il prodotto o il servizio migliore sotto il profilo ambientale considerando l’intero ciclo di vita (in base alla disponibilità di mercato). Adottarli pienamente avrebbe un effetto leva sul mercato e favorirebbe gli investimenti delle aziende per rendere più sostenibile il proprio business e poter accedere agli appalti delle PA.
Cosa frena gli appalti pubblici verdi in Italia?
Cosa frena questo processo? Secondo il rapporto di Legambiente, che si basa su un sondaggio condotto a scala nazionale su oltre 120 pubbliche amministrazioni di diverso tipo, i ritardi sono da imputare per il 53% delle stazioni appaltanti la difficoltà “di stesura dei bandi”. Nel 41% dei casi viene segnalata una “mancanza di formazione” adeguata e in 1 caso su 3 (il 34%) il problema è la mancanza di imprese con requisiti idonei.
Si tratta di “talloni d’Achille su cui è importante intervenire per accelerare il passo e garantirne la piena applicazione recuperando il tempo perso”, sottolinea il rapporto, che chiede di puntare soprattutto su formazione del personale competente e qualificato sul tema dei Cam. Molti documenti obbligatori per le gare, infatti, richiedono che i Cam siano adeguati allo specifico bando, operazione che richiede competenze tecniche specifiche.
L’altra grande priorità è il controllo dell’esito delle gare d’appalto. Questo è un altro neo di non poco conto: solo il 17% delle stazioni appaltanti effettua verifiche sul corretto uso dello strumento. Per sciogliere questo nodo, Legambiente suggerisce di istituire la figura di un referente unico per gli appalti pubblici verdi in ogni stazione appaltante. Un referente che dovrebbe “connettere le varie policy dell’amministrazione (piani d’azione climatica, della mobilità, per l’economia circolare e la prevenzione dei rifiuti, piani di rigenerazione urbana, consigli del cibo, etc.) con l’uso” del green public procurement.
Per Silvano Falocco, direttore di Fondazione Ecosistemi che ha steso il rapporto insieme a Legambiente, “sono necessarie 3 azioni: ogni pubblica amministrazione deve avere un referente del GPP; serve un programma nazionale per formare e affiancare le PP.AA. nell’inserimento dei criteri ambientali e sociali; serve una Task Force nazionale che sia in grado di verificare il rispetto dei diritti umani e sociali lungo le filiere di produzione, per evitare il dumping sociale”.