Il 3° rapporto dell’ufficio dell’Onu per il controllo della droga e del crimine sul traffico di specie animali e vegetali nel mondo calcola che il commercio illegale riguardi oltre 4.000 specie, di cui l’80% considerate a rischio estinzione
Il traffico di fauna selvatica altera gli ecosistemi, riducendone la resilienza alla crisi climatica
I governi si concentrano solo sugli animali “iconici”, come l’elefante e il rinoceronte. Ma il traffico di fauna selvatica riguarda più di 4.000 specie e tocca 8 paesi su 10 in tutto il mondo. Così, nonostante 20 anni di sforzi coordinati a livello internazionale, i volumi di questi traffici “non sono stati sostanzialmente ridotti”. Lo sottolinea l’ufficio dell’Onu per il controllo della droga e del crimine (Unodc) nel 3° rapporto sul wildlife trafficking rilasciato oggi.
Danni “indicibili” dal traffico di fauna selvatica
I crimini contro la fauna selvatica infliggono “danni indicibili” alla natura, sottolinea Ghada Waly, direttrice esecutiva dell’ufficio delle Nazioni Unite. L’80% delle specie oggetto di traffico, calcola l’Unodc, fanno parte della lista della Convenzione sul commercio internazionale delle specie minacciate di estinzione (CITES). Il traffico di fauna selvatica, quindi, rappresenta una minaccia immediata alla loro conservazione. Ma non è l’unico aspetto che va considerato.
Le riduzioni delle popolazioni provocate dal traffico di specie selvatiche possono contribuire a innescare effetti negativi in tutti gli ecosistemi di riferimento. Alterano i rapporti di interdipendenza tra le diverse specie, e mettono a repentaglio certe funzioni ecosistemiche e i processi che ne derivano. Compresi quelli che contribuiscono ad aumentare la resilienza degli ecosistemi all’impatto della crisi climatica, e a mitigare gli effetti dell’aumento delle temperature e degli altri fenomeni connessi con il riscaldamento globale.
“Per affrontare questo crimine, dobbiamo eguagliare l’adattabilità e l’agilità del commercio illegale di specie selvatiche. Ciò richiede interventi forti e mirati sia sul lato della domanda che su quello dell’offerta della catena del traffico, sforzi per ridurre gli incentivi e i profitti criminali e maggiori investimenti in dati, analisi e capacità di monitoraggio”, continua Waly.
I numeri del commercio illegale di fauna e flora selvatiche
I numeri restano alti e ribaltano quelli evidenziati nell’edizione precedente del rapporto, pubblicata nel 2020. Quattro anni fa, rispetto al 2016, il volume di traffici sembrava quasi dimezzato, almeno giudicando a partire dal numero di casi scoperti. Oggi siamo tornati sostanzialmente agli stessi livelli di 8 anni fa. La flessione è stata momentanea e, probabilmente, dovuta alla pandemia più che alla maggior efficacia del contrasto al fenomeno, specifica il rapporto.
Rinoceronti, pangolini ed elefanti restano le specie più trafficate – da sole rappresentano il 73% del totale per la fauna – mentre l’agar, palissandro e cedri coprono ben il 95% dei sequestri per le specie vegetali.
“Una stima iniziale della tendenza dell’indicatore per il periodo 2016-2021 suggerisce che a livello globale il commercio illegale di specie selvatiche intercettate come percentuale di tutto il commercio di specie selvatiche (legale e illegale) è aumentato dal 2017 in poi, raggiungendo i livelli più alti durante la pandemia di COVID-19 nel 2020 e nel 2021 , quando i sequestri di specie selvatiche rappresentavano circa l’1,4-1,9% del commercio globale di specie selvatiche. Per fare un confronto, questa proporzione variava tra lo 0,5-1,1% nei quattro anni precedenti”, si legge nel rapporto.