Uno studio pubblicato su Conservation Letters analizza le 100 maggiori aree marine protette in tutto il mondo, che coprono il 90% dell’estensione totale. Solo 1 su 3 ha livelli di tutela elevati e la stessa percentuale permette invece pratiche “incompatibili” con la conservazione degli habitat e delle specie, come la pesca industriale. Il 25% ha regole di gestione che non vengono implementate: è come se non esitessero
Entro il 2030, le aree marine protette devono coprire il 30% degli oceani, oggi sono il 7%
Solo 1/3 delle aree marine protette a livello mondiale ha standard elevati di tutela e difende realmente la biodiversità. La maggior parte delle MPA, invece, copre un’area di oceano molto vasta ma ha regolamenti e metodi di gestione che restano inapplicati, o addirittura permette attività ad alto impatto su fauna e flora.
Istituire aree marine protette è uno dei cardini della strategia globale per la biodiversità. La Cop15 di Kunming ha fissato l’obiettivo di proteggere almeno il 30% delle zone costiere entro il 2030. Secondo diversi studi, questa percentuale basterebbe per arginare il rischio estinzione per l’80% degli habitat più vulnerabili. E avrebbe ricadute positive anche sull’industria ittica, garantendo un aumento dei volumi di pescato di 8 milioni di tonnellate l’anno.
Finora, solo il 7% degli oceani è protetto e appena il 3% ha un livello di tutela elevato. Man mano che vengono istituite aree marine protette questi numeri migliorano. Ma uno studio pubblicato di recente su Conservation Letters rileva che quantità e qualità della protezione non vanno di pari passo.
Aree marine protette, 6,7 mln km2 fantasma
Analizzando le 100 MPA più estese al mondo, che da sole rappresentano il 90% del totale sottoposto a tutela, gli autori calcolano che circa ¼ delle MPA esistono praticamente solo sulla carta. Le regole di gestione adottate non vengono implementate su questi 6,7 milioni di km2. È il caso, ad esempio, di quelle presso le isole Cook e le Seychelles.
In altri casi, 1/3 del totale, il livello di tutela è “incompatibile con la conservazione della natura” (in base ai criteri dell’IUCN, la più grande organizzazione conservazionista al mondo) a causa delle attività antropiche che vi si svolgono, principalmente la pesca industriale. L’industria ittica “è il principale motore della perdita di biodiversità nell’oceano, con conseguente sfruttamento eccessivo della pesca, riduzione della biomassa e distruzione del fondale marino e degli habitat bentonici”, sottolineano gli autori.