I modelli finanziari su cui si basa la ricerca di capitali per lanciare su scala industriale il deep sea mining sono “irrealisticamente ottimistici”. Un rapporto di The Ocean Foundation analizza gli ostacoli finanziari, legali, tecnici allo sfruttamento dei depositi di metalli sui fondali oceanici
Il deep sea mining fa gola per i depositi di nickel, rame, cobalto, manganese
(Rinnovabili.it) – Gli investitori farebbero bene a pensarci due volte prima di iniettare capitali nell’estrazione di metalli dai fondali marini. Il deep sea mining è un’attività “non provata” su scala industriale, piena di “incertezze sotto il profilo tecnico” ma anche finanziario e normativo. Puntare sulle miniere sottomarine presenta quindi “notevoli potenziali ostacoli finanziari e legali” per gli investitori pubblici e privati.
Le sirene del deep sea mining
L’avvertimento arriva da The Ocean Foundation in un rapporto che passa al vaglio la fattibilità su scala commerciale del deep sea mining, l’ultima frontiera dell’industria mineraria. A profondità di 3-6.000 metri, in alcune aree, si trovano concentrazioni di metalli preziosi e indispensabili per la transizione energetica. Dal nickel al cobalto, dal rame al manganese. Sotto forma di noduli polimetallici o croste in corrispondenza di camini vulcanici.
Accedere a questi depositi significa mettere le mani su ingenti quantità di risorse. Ma la tecnologia necessaria per riuscirci e i costi dell’impresa sono ancora un’incognita. Per non parlare dei risvolti ambientali, su cui i pochi studi esistenti sono concordi nel mettere in guardia: si rischia di stravolgere gli ecosistemi più delicati e meno conosciuti del Pianeta, anche per decenni, con conseguenze difficili da comprendere. E una ricerca pubblicata nel 2023 calcolava che ripristinare gli ecosistemi dei fondali costerebbe il doppio dei profitti del deep sea mining.
Modelli finanziari sbagliati per le miniere sottomarine
Nonostante queste difficoltà, le aziende e gli stati interessati alle miniere sottomarine continuano a cercare capitali. The Ocean Foundation passa in contropelo le premesse della ricerca di investimenti e ne mette in luce i punti deboli. I modelli finanziari su cui si basano sono “irrealisticamente ottimistici”: ignorano le principali difficoltà tecniche nell’estrazione e la volatilità del mercato dei metalli.
La stessa Autorità internazionale per i fondali marini (ISA), un organo ONU che sta vagliando un quadro legislativo comune per le miniere sottomarine, avvertiva in un rapporto recente che i metalli estratti dai fondali rischiano di generare poco o nessun profitto. Il punto debole dei modelli usati per stimare la convenienza economica del deep sea mining, infatti, legano l’andamento dei prezzi dei metalli allo sviluppo del mercato delle auto elettriche.
Ma in realtà “i prezzi dei metalli non sono aumentati di pari passo con la produzione di veicoli elettrici: tra il 2016 e il 2023 la produzione di veicoli elettrici è aumentata del 2.000% e i prezzi del cobalto sono scesi del 10%”, sottolinea il rapporto.
Non solo: le miniere sottomarine guardano soprattutto agli EV come mercato di sbocco, ma i produttori di batterie si stanno orientando su dispositivi senza nickel e cobalto, come le batterie litio-ferro-fosfato. E tra innovazione e potenziamento dell’economia circolare, la richiesta di cobalto e manganese potrebbe crollare del 40-50% entro metà secolo. Il deep sea mining, in altre parole, rischia di muoversi più lentamente dell’innovazione tecnologica nei mercati a cui punta. Tutti fattori che rendono il ritorno d’investimento molto incerto.