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Il benessere animale è fatto anche di rispetto

Un documento di Slow Food si interroga sul significato profondo di benessere animale. Il rapporto con l’animale deve prevedere anche il rispetto nei suoi confronti, ma purtroppo il dilagare degli allevamenti intensivi non lo ritiene una priorità. Intanto le coltivazioni intensive di mais e soia stanno portando l’equilibrio ambientale verso il disastro

Foto di Pfüderi da Pixabay

di Isabella Ceccarini

(Rinnovabili.it) – Si parla spesso, e giustamente, di benessere animale. Gli animali domestici vivono accanto all’uomo da più di 10mila anni. Un’amicizia ricambiata in cui non si devono perdere di vista diritti e doveri.

Dal benessere animale al rispetto

Quale benessere vogliamo garantire agli animali, domestici e non? Da questa domanda parte Oltre il benessere: gli animali d’allevamento meritano rispetto – Documento di posizione di Slow Food sull’allevamento, che spiega con precisione i vari aspetti che riguardano il rapporto uomo-animale. Non una posizione di pregiudizio, ma un’analisi lucida dei pro e dei contro per quanto riguarda l’alimentazione sana e l’inquinamento ambientale, aspetti di cui il benessere animale è parte integrante.

Se gli animali selvatici sono a rischio di estinzione, quelli domestici sono diventati in un certo senso nostri “prigionieri”. Pensiamo a quello che succede negli allevamenti intensivi, dove vivono milioni di capi, spesso rinchiusi in gabbie, privati della libertà, destinati all’alimentazione umana.

Ci sono leggi che difendono il diritto degli animali a non soffrire e a vivere dignitosamente, ma in realtà «in molti allevamenti del mondo gli animali non hanno diritti».

Secondo il documento di Slow Food non dobbiamo rinunciare ad allevare gli animali, ne risentirebbe l’equilibrio dell’ecosistema, dobbiamo allevarli con rispetto.

Consumi in crescita

I più grandi consumatori di carne del mondo sono gli Stati Uniti, seguiti dall’Europa. Con la crescita demografica è aumentata la domanda di carne: negli ultimi sessant’anni è quintuplicata e crescerà ancora perché dove migliorano le condizioni economiche le diete si “occidentalizzano”. Pensiamo alla Cina, dove il consumo di carne sta crescendo vertiginosamente, o agli altri Paesi in via di sviluppo che stanno seguendo il medesimo trend, seppure in proporzioni inferiori.

Per il 2050 si stima una crescita della domanda di prodotti lattiero-caseari del 74% e di carne del 48%. Secondo la FAO, nel 2030 il 41% delle proteine animali consumate saranno avicole: carne meno costosa e ritenuta più sana. Con queste cifre è evidente che la superficie agricola non sarà sufficiente a nutrire il bestiame. Al momento in circa un terzo dei terreni coltivabili le colture sono dedicate alla produzione di mangimi mentre la crisi climatica ridurrà progressivamente le rese.

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Parola d’ordine: concentrare

Da alcuni anni la parola d’ordine è concentrare, ovvero ridurre il numero delle aziende e aumentare i capi negli allevamenti. È superfluo sottolineare che i piccoli allevamenti sono stati travolti da questo sistema. Per dare un’idea delle dimensioni, in Cina il 40% dei suini proviene da allevamenti con più di 1000 scrofe, e una sola azienda produce più di 30 milioni di maiali all’anno (il 21% di quelli allevati negli USA); il 29% del latte proviene da 25 aziende che allevano circa 68mila capi ciascuna. In Europa tre quarti della produzione viene da aziende di grandi dimensioni che hanno portato alla chiusura di quelle piccole. Negli USA ci sono aziende che allevano animali ma non svolgono attività agricola, ovvero non producono alimenti per il bestiame ma lo ingrassano con mangimi provenienti dall’esterno.

Cosa caratterizza l’allevamento intensivo? Poche razze selezionate per alta produttività e minori costi di produzione, gli animali vivono ammassati, hanno vita più breve, prendono ormoni per crescere più velocemente e antibiotici per evitare il diffondersi di malattie, l’alimentazione altamente proteica è fatta di mais, soia e mangimi di origine animale fatti con scarti industriali. I cereali, le leguminose, il fieno e la paglia spesso provengono da luoghi lontani; mais e soia sono coltivati in monocoltura, spesso Ogm. Il danno ambientale è evidente: deforestazione, alto consumo di acqua, fertilizzanti, erbicidi e pesticidi.

I costi nascosti per la salute umana

Sistema zootecnico e monocolture producono il 14,5% dei gas serra. Ma ci sono i costi nascosti che impattano sulla salute umana. Ad esempio, le zone ad alta densità di allevamenti intensivi – è il caso della Pianura Padana – sono ricche di particolato atmosferico, particolarmente nocivo per l’uomo. Il 60% delle malattie infettive emergenti sono trasmesse dagli animali all’uomo e da 80 anni sono in crescita: gli allevamenti intensivi, specie di polli e suini, sono un luogo di sviluppo e diffusione delle zoonosi.

Il disboscamento, l’estrazione mineraria e l’espansione agricola nelle terre selvatiche causano sconvolgimenti ecologici; l’insicurezza alimentare accresce la richiesta di animali selvatici e aumenta il contatto con l’uomo. Senza arrivare ai tropici, la cattiva gestione degli animali selvatici ha portato la peste suina anche in Italia: non è contagiosa per l’uomo, ma ha gravi conseguenze per gli allevamenti suini.

Foto di Hans da Pixabay

One Health, One Welfare

Il termine One Health indica la correlazione tra uomo, animali ed ecosistema; l’approccio One Welfare, complementare a One Health, enfatizza la necessità di una visione più ampia del concetto di salute per cui il benessere dell’uomo e dell’ambiente sono fondamentali per promuovere il benessere animale.

Il ruolo della terra è indispensabile per la produzione di tutti gli alimenti. Un suolo sano, fertile e ricco di biodiversità influenza positivamente sia la salute umana che quella degli animali, un suolo impoverito ha bisogno di reintegrare la sostanza organica con i fertilizzanti. Un suolo con meno del 2% di sostanza organica (in Italia l’80% dei terreni è sotto questa soglia) è impoverito.

Dopo decenni di agricoltura intensiva, si prevede che entro il 2050 il 90% dei terreni potrebbe essere irrimediabilmente degradato, con evidenti problemi per le coltivazioni; d’altra parte il raddoppio dell’uso dei pesticidi tra il 1990 e il 2019 un segno lo ha lasciato. Il pesticida più venduto al mondo è il glifosato, che l’International Agency for Research in Cancer (IARC) ha classificato come “probabilmente cancerogeno”, e ancora non è chiaro quale sia l’effetto dell’assunzione accumulata nel tempo. Inoltre, le sostanze chimiche di sintesi sono responsabili della moria di api e altri animali impollinatori, che svolgono un lavoro fondamentale per le colture che compongono la nostra alimentazione.

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Il ruolo del pascolo per la salute dell’ecosistema

Un pascolo ben gestito – sia in pianura che nelle aree montane – è importante per un allevamento sostenibile e per la salute dell’ecosistema. I pastori sono custodi del territorio: puliscono il sottobosco, controllano i canali di scolo e gli argini, hanno una funzione di prevenzione per frane e incendi, la rotazione degli animali secondo la disponibilità di spazi e le stagioni contribuisce alla rigenerazione dei terreni e alla biodiversità. Va sottolineata la riduzione dei pascoli e l’aumento degli animali allevati, un disaccoppiamento che il cambiamento climatico aggraverà.

Il documento di Slow Food evidenzia il valore ambientale del pascolo, perché favorisce lo stoccaggio del carbonio (in alcuni casi anche più delle foreste), offrendo un contributo alla soluzione della crisi climatica. Bisogna però ripensare a quali animali allevare, perché non tutte le razze sono adatte al pascolo.

La biodiversità animale

Nei millenni le razze animali si sono adattate al cambiamento di climi e ambienti diversi, ma molte di esse sono a rischio estinzione. La FAO ha censito 7.745 razze locali in tutto il mondo. 594 si sono già estinte, molte sono a grave rischio di estinzione (25% avicole, 83% bovine, 44% caprine, 50% suine). La perdita di biodiversità animale è dovuta alla crescita dell’allevamento intensivo: poche razze, più produttive, facilmente gestibili in stalla con processi meccanizzati e quindi meno forza lavoro. Negli Stati Uniti le aziende industriali allevano tre sole razze (Angus, Simmenthal e Hereford) e il 90% delle vacche da latte sono di razza Frisona. Le razze locali sono ritenute meno produttive e meno redditizie: in realtà i costi di gestione sono inferiori perché hanno sfruttano bene il pascolo, possono stare all’aperto, sono più resistenti, fertili e longeve.

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Gli animali sono esseri sociali

Gli animali hanno bisogno di relazioni sociali intense tra loro e con gli allevatori per vivere in armonia. Il grooming, ossia il prendersi cura uno dell’altro, fa parte di una sana vita all’aperto. Anche la riproduzione dovrebbe avvenire in modo naturale: il ruolo del maschio adulto dà stabilità e protezione al branco. Gli animali allevati all’aperto, inoltre, dimostrano di avere comportamenti più attivi.

Vivere ammassati porta gli animali all’aggressività. Per questo negli allevamenti industriali le mutilazioni (tagliare il becco o la coda, castrare, decornare) sono ritenute necessarie per evitare che gli animali si feriscano. Un allevamento rispettoso del benessere animale dovrebbe cambiare la gestione in modo da evitare le mutilazioni. Per quanto riguarda la castrazione, normalmente avviene chirurgicamente. In alcuni Paesi (non UE) vengono somministrate dosi ripetute di un vaccino che inibisce l’azione degli ormoni maschili, ma non è ancora chiaro quale sia l’effetto nel tempo sui consumatori.

Foto di Marco Massimo da Pixabay

Condizioni di vita

La longevità degli animali cambia a seconda del tipo di vita che fanno: ad esempio, le mucche da latte seguono una dieta iperenergetica per produrre più latte possibile e raramente escono dalla stalla. Le razze allevate con metodi estensivi possono vivere anche 15 anni, quelle degli allevamenti intensivi dopo quattro anni circa vengono macellate. Attualmente nell’UE oltre 300 milioni di animali vivono nelle gabbie, una pratica che in Europa dovrebbe cessare nel 2027, ma rimarrà nel resto del mondo. Negli allevamenti intensivi gli animali giovani e maschi rappresentano un problema. Vengono allontanati dalla madre a poche ore dal parto: per non sottrarre latte alla produzione aziendale sono alimentati con latte in polvere, appositi succhiatoi o vacche balia. I pulcini maschi, che non produrranno uova, vengono direttamente soppressi. La loro carne sarà trasformata in farina per l’alimentazione animale.

Alimentazione

La buona alimentazione degli animali (a base di fieni, cereali e legumi) comincia dalla corretta gestione agronomica dei terreni e dei pascoli. Gli allevamenti intensivi ricorrono a monocolture di cereali con conseguenze devastanti per l’ambiente: basta pensare che in Sudamerica la superficie destinata alla coltivazione di soia è cresciuta di 200 volte dagli anni Sessanta (a costo di una deforestazione selvaggia), e il 75% è destinata all’alimentazione animale.

Il mais, alla base dell’alimentazione umana dei Paesi più poveri in Africa e America Latina, è impiegato per il 63% dal settore zootecnico. La maggior parte di soia, mais e altri prodotti per la zootecnia sono Ogm, ritenuti negli anni Novanta la soluzione contro il cambiamento climatico, i parassiti e l’uso di diserbanti. A distanza di tempo si è visto che la fame non è diminuita, l’uso di pesticidi e diserbanti è aumentato, alcuni insetti stanno diventando resistenti e si perde biodiversità. Infine non è ancora evidente quale sia l’impatto sulla salute.

Antibiotici e ormoni

Il 73% degli antibiotici usati nel mondo è impiegato in zootecnia per curare e prevenire le malattie degli animali. Questo è diventato un problema globale perché i batteri si adattano alle nuove condizioni. Le resistenze si trasferiscono dagli animali agli uomini e gli antibiotici perdono di efficacia. Un rapporto dell’EFSA (The European Union Summary Report on Antimicrobial Resistance in zoonotic and indicator bacteria from humans, animals and food) evidenzia che il numero di patogeni resistenti agli antibiotici è in crescita, sia negli allevamenti che tra le persone.

Ogni anno si registrano circa 700mila vittime di infezioni che non è stato possibile curare. Di questo passo, si stima che l’antibiotico resistenza sarà la prima causa di morte nel 2050. Senza un freno stabilito dai governi, l’uso degli antibiotici continuerà a crescere con gravi conseguenze per gli esseri umani. Ma anche migliori pratiche di gestione degli allevamenti ne renderebbero superfluo l’utilizzo indiscriminato. In alcuni Paesi si fa largo uso di ormoni per stimolare la crescita degli animali. L’UE ne vieta l’uso: numerosi studi ne hanno accertato che sono cancerogeni e possono portare a pubertà precoce.

Cosa c’è nei mangimi?

I mangimi industriali “completi” contengono di tutto: materie prime vegetali e animali, residui di macellazione, sottoprodotti industriali, conservanti, farine di pesce, carcasse di animali, perfino residui di deiezioni animali. Tutto debitamente trattato per renderlo commestibile. Le analisi hanno rilevato la presenza di metalli pesanti, micotossine, batteri, diossine. Dopo l’epidemia di BSE (la cosiddetta mucca pazza), l’UE ha vietato alimentare animali con derivati da ruminanti ed ha emanato una direttiva sulle sostanze proibite nei mangimi, ma in molti altri Paesi la situazione non è affatto chiara. Come avviene per gli esseri umani, animali nutriti in modo sano si ammalano più raramente e quindi hanno meno bisogno di farmaci. Pascolare è una fonte di benessere per gli animali, che sanno selezionare le erbe più adatte al loro equilibrio.

La macellazione e il trasporto

Il rispetto per gli animali deve durare dalla nascita alla morte. Nei grandi centri di macellazione – che hanno soppiantato i piccoli macelli locali, collegati ai piccoli allevamenti di razze autoctone – è venuta meno l’attenzione agli animali, sottoposti a stress e sofferenze inutili per rispettare tempistiche e contenimento dei costi. Parliamo di impianti che macellano anche 5 milioni di suini l’anno (Cina) o addirittura 13 milioni (USA). La crescente richiesta di carne, e quindi la sua commercializzazione, fa sì che gli animali siano trasportati – sia da vivi che macellati – su lunghe distanze. Per gli animali il trasporto è un momento traumatico: non sono abituati a viaggiare sui veicoli, stipati in spazi angusti, disidratati e vulnerabili ai contagi. Sarebbe preferibile allevarli e macellarli vicino al luogo di nascita.

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L’etichetta dovrebbe raccontare il benessere animale

Non sempre i piccoli allevamenti garantiscono il benessere animale, ma in quelli intensivi non è una priorità. Il comportamento degli addetti, che devono essere adeguatamente formati, aiuta a stabilire con gli animali una relazione positiva. I consumatori europei sono molto attenti al benessere animale, ma chi lo garantisce? L’etichettatura in Europa ancora non prevede che sia indicata l’origine dei prodotti di origine animale, solo le uova riportano un codice alfanumerico che identifica l’allevamento di provenienza. Le etichette della carne bovina fresca non indicano cosa l’animale ha mangiato, se ha pascolato, che sostanze ha assunto, se viene da un allevamento intensivo. Il marchio del biologico prevede un livello elevato di benessere degli animali.

In Italia, ad esempio, FederBio ha sviluppato uno standard ancora più severo, “High Welfare FederBio”; il marchio di agricoltura biodinamica Demeter richiede anche il rispetto di una filosofia che vede l’azienda agricola come un ecosistema integrato e in equilibrio; il marchio Agricoltura Simbiotica certifica la sostenibilità delle produzioni agricole e delle pratiche zootecniche.

Sarebbe importante arrivare a una visione condivisa a livello europeo. La strategia europea Farm to Fork ritiene l’etichettatura una preziosa fonte di informazioni per il consumatore sia per i prodotti agricoli che zootecnici, ma di fatto ha lasciato libertà di azione ai singoli Stati, e questo non potrà che generare confusione tra i consumatori. Sono necessari strumenti normativi flessibili, perché le regole di un grande allevamento non sono adatte a uno di piccole dimensioni.

Rinunciare alla carne nella dieta?

Una dieta equilibrata deve prevedere anche la carne, fonte insostituibile di proteine. L’importante è che sia di buona qualità e che si integri con pesce, verdure e cereali integrali. Per questioni ambientali si sta sperimentando la carne coltivata in laboratorio, che potrebbe diventare un’opzione nel futuro. Ma la sua composizione è ricca di additivi e di elementi di cui ancora non si conosce l’effetto sulla salute. Le tecnologie evolvono velocemente, le informazioni non altrettanto. La produzione della carne sintetica richiede grandi quantità di energia ed eliminare gli animali comporterebbe conseguenze ambientali e culturali da non trascurare. Non dimentichiamo infine che dietro ci sono potenti corporation che guardano più al profitto che al benessere dell’uomo e del Pianeta.

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