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Mario Giampietro: conoscenze scomode, identità incerte e pratiche desiderabili

Mario Giampietro ha accettato la nostra sfida e risposto alle nostre domande. Scopriamo la sua prospettiva sui problemi che abbiamo in comune e facciamone tesoro per interrogare criticamente noi stessi e il mondo.

Mario Giampietro

di Daniela Martinelli e Francesco Pigozzo

Mario Giampietro è Research Professor dell’Institució Catalana de Recerca i Estudis Avançats (ICREA) presso l’Università Autonoma di Barcellona. Già ricercatore dell’Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione (1985-2007), è stato visiting professor in numerosi Atenei europei e statunitensi. Autore di centinaia di pubblicazioni scientifiche, principalmente riconducibili alla valutazione integrata di questioni di sostenibilità, ha coordinato il progetto Horizon2020 MAGIC.

Quali connessioni o contraddizioni vede tra quello che la occupa come individuo (lavoro, ricerche, passioni, ossessioni…) e quello che la pre-occupa come essere umano che fa parte di molteplici collettività, dal locale al globale?

Rispondo introducendo tre concetti per me fondamentali: (1) la biosemiotica ci dice che tutti i sistemi complessi che si autorganizzano e hanno la capacità di adattarsi sono generati da un processo iterativo nel quale il significato della informazione immagazzinata in un pool condiviso di conoscenze (notional side – i geni, la cultura) è usato per guidare un complesso di azioni richieste per esprimere l’identità del sistema (che riflette la sua storia), all’interno di un contesto biofisico (tangible side – gli organismi, le società); (2) la psicoanalisi ci dice che in ogni momento dato l’espressione della nostra identità dipende da un compromesso (deciso dall’ego) tra una serie di regole di comportamento che vengono dall’esterno (il super ego) e delle pulsioni profonde che vengono dall’interno (l’id); (3) nel campo della complessità il concetto di “holons” (introdotto da Arthur Koestler) ci dice che la nostra identità è definita dalle interazioni affettive con altri “holons” (holarchies) che sono regolate da norme sociali e che avvengono all’interno di un contesto che è in continua evoluzione. Un “holon” è quindi una combinazione di: (i) una tipologia di struttura materiale (il corpo umano); (ii) una tipologia di attore sociale (determinato dalle pratiche sociali espresse nella società); (iii) “un caso di specie” della combinazione di questi due tipi (noi siamo tutti speciali!).

Questi tre concetti implicano una incertezza sistemica sulla definizione della nostra identità, non solo quando la definisca qualcun altro, ma anche quando proviamo a definirci da soli. Il concetto di “holon” significa che una persona data può essere allo stesso tempo una madre, una tifosa della Roma, una professoressa di matematica, una amante della pasta e ceci. Lo stesso accade se guardiamo alle tipologie che identificano un “holon”: un professore di matematica (tipologia funzionale) può essere associato con diverse tipologie strutturali (p.es. uomo, donna) che sono osservabili in individui diversi (alti, bassi, giovani o vecchi). La psicoanalisi ci dice che il tipo di comportamento che esprimiamo dipende da un equilibrio più o meno stabile che richiede una continua mediazione tra passione e razionalità. Un equilibrio che può essere alterato in qualsiasi momento. Infine il concetto più generale di processo biosemiotico ci dice che noi non esistiamo come individui ma come elementi attivi di un processo che opera a larga scala e che genera per noi “significati” attraverso la nostra continua interazione affettiva con altre persone e con l’ambiente.  Fatta questa premessa la risposta alla domanda diventa abbastanza banale. È proprio la capacità di mantenere un equilibrio tra le differenti componenti della nostra identità (p.e. spirituale/materiale, individuale/sociale, economica/ecologica) che ci permette di dare un senso alle nostre vite (mantenere ed espandere il significato della nostra identità). In relazione a questo punto la filosofia orientale basata sul concetto di “unità attraverso la diversità” (Yin-Yang) riesce meglio a gestire l’inevitabile coesistenza di contraddizioni. Questo punto è per me molto importante, dato che indica l’esistenza di un problema sistemico della società occidentale cui appartengo e che mi pare manifestamente ubriacata dal sogno Cartesiano nel quale si pensa che la scienza ci darà la capacità di previsione assoluta e di controllo. I tre concetti presentati all’inizio spiegano perché l’equilibrio necessario per mantenere il significato della nostra identità non può essere raggiunto sulla base di conoscenze scientifiche e razionali. In occidente dobbiamo imparare a saper gestire meglio la componente emozionale e affettiva che ci permette di stabilire legami affettivi non solo a livello personale ma anche a livello sociale e nel nostro rapporto con la natura. Questi legami affettivi sono essenziali per raggiungere e mantenere l’equilibrio tra le varie componenti all’interno del processo biosemiotico.

“Se tutti in tutto il mondo facessero così, diventerebbe impossibile fare così per chiunque”. “Continuando a fare così, ben presto noi esseri umani non potremo più fare così”. Che cosa le evocano queste frasi?

Queste frasi si riferiscono a concetti base che sono presenti nella cultura tradizionale di ogni società umana. Purtroppo oggi queste frasi, nella nostra società, possono essere usate come provocazione come se fossero punti di vista non ortodossi. Questo fatto in me evoca tristezza dato che dimostra chiaramente la progressiva perdita di cultura che si sta riflettendo in una continua perdita di significato della nostra identità sia individuale che collettiva. La cultura rappresentava una volta la saggezza accumulata da una società attraverso le esperienze e conoscenze di generazioni a proposito della importanza della gestione della diversità nelle pratiche sociali. Ogni membro della società con il suo impegno e creatività contribuiva alla creazione e alla preservazione della cultura comune. Per questo nella società ci devono essere dei ruoli sociali che si possono contestare e cambiare, nei quali la gente si senta a suo agio. Questi ruoli non devono essere fissi o inamovibili ma il risultato di differenziazioni funzionali che vanno continuamente aggiustate.  La definizione di questi ruoli è essenziale per due motivi. Primo la identificazione con un ruolo sociale fa sentire le persone utili in relazione alla espressione di una identità collettiva. Secondo, questa diversità di ruoli è essenziale per garantire la capacità di adattamento della società. Per questo motivo i ruoli da svolgere nella società non possono essere scelti dagli individui completamente “a piacere”. I ruoli sociali devono essere compatibili con: (i) i vincoli interni – la necessità di esprimere le attività richieste per riprodurre gli elementi strutturali e funzionali della società – p.es. le persone, le famiglie, gli ospedali, i servizi e i flussi di prodotti consumati (che devono essere prodotti dai settori produttivi); (ii) i vincoli esterni – la disponibilità di risorse naturali che servono per stabilizzare i consumi e la salute degli ecosistemi stressata dall’attività umana: (iii) la sensazione di appartenenza dei membri della società. Questo significa che la cultura ci dovrebbe far avere la consapevolezza che non siamo individui soli che agiscono fuori di ogni contesto. Nella costruzione della nostra identità ci sono anche “gli altri” e “la natura”. Infatti il processo che genera la nostra identità, attraverso una serie di interazioni con l’esterno, passa attraverso il nostro “cuore” – emozioni, passioni, paure, sogni.  È questo passaggio che garantisce la qualità della nostra identità collettiva. Purtroppo la società dei consumi – le narrative economiche per le quali siamo diventati semplicemente dei consumatori che servono a generare profitto nella economia – e la arroganza tecnico-scientifica – le narrative che ci dicono che gli uomini possono controllare la natura e decidere a piacere dei loro ruoli – stanno distruggendo la cultura tradizionale che è stata prodotta in migliaia di anni di esperienza fatta dall’uomo su questo pianeta. Siamo ormai in una società che ha generato una nuova forma di economia: “la funzione di questa nuova economia, legale e illegale, è di intrattenere e distrarre una popolazione che, sebbene sia più impegnata che mai, sospetta segretamente che sia inutile” (Gray, 2002, p. 160).  Come risultato vediamo sempre più spesso i nostri giovani, che non potendo contare su una identità condivisa con il resto della società, si fotografano da soli continuamente per riassicurarsi che esistono.

Stanno finalmente guadagnando visibilità i problemi di sostenibilità biologica, economica, sociale, culturale che pesano sull’esistenza dell’umanità – eppure si tarda e si fatica troppo a prendere e attuare decisioni collettive conseguenti: non è che c’è qualcosa di insostenibile anche nell’organizzazione politico-istituzionale umana?

La forza dell’identità, la robustezza del tessuto sociale, dipende dalla volontà dei membri di una società di collaborare insieme per affrontare i problemi e realizzare le aspirazioni comuni, cioè di esprimere i ruoli sociali che sono stati definiti da tutti come utili per la società. Questa decisione può essere posta in relazione alla capacità di esprimere un equilibrio dinamico nell’ottica con cui la psicoanalisi definisce l’identità individuale delle persone.  Il super-ego, che propone le regole da seguire, deve “negoziare” con l’id per essere sicuro che l’ego alla fine si comporti in maniera accettabile.

Il grande sociologo tedesco Niklas Luhmann ha infatti proposto che: (i) i sistemi sociali (le comunicazioni e le istituzioni che possono essere associati con il super-ego): (ii) la serie di interazioni fisiche (il comportamento espresso dall’ego) devono risultare accettabili alla parte emozionale della società (iii) il social id. Quindi Luhmann suggerisce che ci sia una componente psichica fondamentale (le emozioni e le passioni dell’id) che serve a chiudere il cerchio nella definizione di identità. I membri di una società devono volere essere membri della società. Se la componente psichica non è contenta il tessuto sociale si sfalda (emigrazione, corruzione, criminalità diffusa) e diventa difficile mantenere la coerenza nell’espressione delle pratiche sociali. Un altro grande sociologo tedesco Jürgen Habermas ha notato come la giustificazione della legittimità delle istituzioni (del super ego nella nostra metafora) richiede che i risultati dell’organizzazione e delle politiche della società (le scelte dell’ego) risultino compatibili con i sentimenti, le emozioni, le paure e le aspettative della gente (l’id). Questo significa che le istituzioni delle moderne democrazie basate sul welfare sono costrette a dire sempre che tutto va bene e che loro hanno le soluzioni a tutti problemi della società. Soprattutto in momenti di crisi, quando le istituzioni si rendono conto che non sono in grado di risolvere i problemi che si stanno accumulando – come nel caso della crisi di sostenibilità che stiamo attraversando –, per paura di perdere legittimità il “mantra” delle istituzioni diventa ossessivo: “nuovi modelli di business (turismo su Marte) e innovazioni tecnologiche (la economia circolare) garantiranno la qualità della nostra vita futura”.

Finalmente adesso, dopo questa lunga introduzione, posso rispondere alla domanda: l’attuale organizzazione politico-istituzionale non è in grado di gestire i problemi di sostenibilità che stiamo affrontando. La spiegazione di questo fatto la ha data Steve Rayner in un visionario articolo del 2010. Per mantenere la loro legittimità le istituzioni devono ignorare, nella discussione pubblica di politiche, l’esistenza di conoscenze che possono essere usate per criticare le scelte fatte dai governi. L’eliminazione sistematica delle conoscenze scomode porta a quella che è stata chiamata la sindrome dell’Ancien régime (da due filosofi della scienza, Silvio Funtowicz e Jerome Ravetz) che implica l’impossibilità di leggere i segnali di pericolo che ci vengono dal mondo esterno. Quindi la discussione di politiche si centra su “immaginari socio-tecnologici” nei quali si risolvono tutti i problemi con delle soluzioni “panacea” come l’economia circolare che ci garantirà il green growth. Il rifiuto di riconoscere e affrontare problemi specifici che abbiamo nell’interazione con il mondo che ci circonda, rifugiandosi in un mondo immaginario che noi creiamo a nostro piacere e dove noi immaginiamo di fare quello che vogliamo, è la definizione esatta di “delirio psicotico” data da Freud.

Ci aiuti per cortesia, pensando alla sua esperienza, a costruire una risposta collettiva a questa domanda: che cosa è indispensabile sapere e cosa è indispensabile imparare a fare per un essere umano oggi?

Riconoscere le nostre fragilità e debolezze in quanto individui e la nostra dipendenza assoluta dagli altri umani e dalla natura. Capire che la nostra forza è la capacità di prenderci cura l’uno dell’altro e che la tecnologia non serve a dominare la natura ma soltanto a esprimere delle pratiche sociali più desiderabili che devono essere in armonia con il nostro ambiente.

Letture per approfondire. Delle numerose pubblicazioni di Mario Giampietro (esplorabili qui): Multiscale integrated analyses of agroecosystems, CRC Press, 2019;  con Funtowicz F., From elite folk science to the policy legend of the circular economy, in Environmental Science & Policy, 109 (2020), 64-72; The Biofuel delusion, Routledge 2015. Da esplorare la piattaforma Unconfortable Knowledge del Progetto Horizon 2020 MAGIC. Di Koestler A., The Ghost in the Machine, Macmillan 1967. Di Gray, J., Straw Dogs: Thoughts on Humans and Other Animal, Granta, 2002. Di Rayner S., Uncomfortable knowledge: the social construction of ignorance in science and environmental policy discourses, in Economy and Society, 41(1), 2012, pp. 107-125.

Chi volesse reagire a queste risposte, ponendo altre domande a Mario Giampietro, ci scriva a formazione@rinnovabili.it. Alla luce delle sue riflessioni, noi formuliamo queste ulteriori questioni che valgono anche per tutti i nostri lettori:

Non trova che il concetto appunto identitario di “occidente” (e il presunto opposto “oriente”) sia piuttosto vago e impreciso?

Essendo promotori di una visione multiscalare della cittadinanza e dei suoi quadri politico-istituzionali, non possiamo non chiederle in quanti livelli d’analisi e con quali specificità per ciascun livello articolerebbe la sua generale constatazione della trappola autodistruttiva in cui si trova l’architettura istituzionale attuale della società umana di fronte alle sfide della sostenibilità.

Rispetto alla sua ultima risposta, quale ruolo può svolgere a suo parere la scuola pubblica a tal fine, tenuto conto del fatto che, per definizione, si trova ad essere parte integrante di quelle istituzioni affette dalla sindrome d’Ancien régime di cui ci ha parlato?