Rinnovabili • Ecoregioni oceaniche

Le ecoregioni oceaniche e la conservazione della biodiversità marina

L’identificazione di ecoregioni oceaniche e lo studio delle loro interazioni in termini di connettività degli ecosistemi che le popolano, è fondamentale per la gestione ambientale e la conservazione delle specie.

Contenuto realizzato nell’ambito del progetto CNR 4 Elements

Ecoregioni oceaniche
Il Lionfish (Pterois miles) presso Shaab Angosh reef, Mar Rosso egiziano. Autore: Alexander Vasenin, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons.

di Lyuba Novi e Annalisa Bracco

Guardando il mare aperto, un’immensa distesa d’acqua si dispiega davanti ai nostri occhi. Sotto un’illusoria monotonia blu esiste un universo estremamente differenziato e brulicante di vita, in cui ecosistemi marini sono “organizzati” in aree ben distinte, note come “ecoregioni”. Ogni ecoregione è caratterizzata da proprietà fisiche e biologiche, e in funzione di queste proprietà può ospitare specie marine uniche.  

L’identificazione di ecoregioni oceaniche (ecoregionalizzazione), e lo studio delle loro interazioni in termini di connettività degli ecosistemi che le popolano, è fondamentale per la gestione ambientale e la conservazione delle specie. Queste ecoregioni, infatti, forniscono una base per lo studio di problemi complessi, come il controllo della diffusione di specie invasive o la realizzazione di aree marine protette efficaci. La capacità di un’area marina protetta di conservare la biodiversità e rifornire di giovani individui le aree limitrofe, infatti, è legata alla connettività delle sue popolazioni e alla capacità di larve e giovani individui di spostarsi e colonizzare altre regioni. Nell’oceano questa capacità dipende dalle correnti marine che trasportano acqua, larve, plankton, nutrienti e inquinanti da una regione ad un’altra. 

Gli esperti si sono imbattuti in acque agitate cercando di definire con precisione queste ecoregioni e la loro connettività, non solo per la complessità dei processi coinvolti ma anche a causa della scarsità di dati in mare aperto e del grande potenziale di dispersione delle correnti oceaniche. Fino ad ora gli scienziati hanno usato metodologie complementari per affrontare il problema, con approcci basati su osservazioni sparse e generalmente solo sotto costa, oppure basati sul calcolo numerico del trasporto di larve (connettività). In quest’ultimo caso, si sfruttano simulazioni numeriche di circolazione oceanica e si analizza la dinamica del trasporto larvale in modo virtuale. Grazie al continuo miglioramento delle tecnologie informatiche, negli ultimi anni l’ecoregionalizzazione basata sulla connettività è stata calcolata per alcuni bacini, ad esempio per il Mar Mediterraneo, su periodi di stagioni o pochi anni. Queste simulazioni richiedono di calcolare la circolazione marina e il trasporto delle larve in modo diretto con modelli piuttosto raffinati al fine di fornire informazioni utili. Rimangono perciò simulazioni molto onerose per le tecnologie attualmente disponibili, così da rendere impossibile l’analisi di grandi spazi ed al contempo di periodi di tempo di diverse decine di anni. 

La gestione ambientale e la conservazione della biodiversità marina, tuttavia, sono problemi sempre più urgenti, che richiedono informazioni almeno decennali e su interi bacini, rendendo questo tipo di ecoregionalizzazione una sfida necessaria. 

Di recente, un lavoro realizzato da ricercatori del CNR di Pisa e del Georgia Institute of Technology (Georgia Tech) di Atlanta, pubblicato sulla rivista Nature Scientific Reports, ha proposto un nuovo metodo per localizzare le ecoregioni, e studiarne cambiamenti e connettività. Questo metodo contribuisce a verificare la vulnerabilità degli ecosistemi ai cambiamenti presenti e a predire l’evoluzione della connettività nel futuro. Lo studio suggerisce un nuovo approccio basato su metodi di “Complex Networks”, ed è applicato alle anomalie mensili della temperatura superficiale del mare. Consente dunque di sfruttare oltre 30 anni di misure satellitari che tracciano questa temperatura con grande precisione.

Per l’analisi delle ecoregioni e delle loro connessioni, il team, composto dalla Dott.ssa Lyuba Novi, dal Dott. Fabrizio Falasca, e guidato dalla Prof. Annalisa Bracco, ha adattato una metodologia sviluppata presso la Scuola di Computer Science nel College of Computing a Georgia Tech. L’intuizione fisica alla base di questo lavoro si basa sul fatto che la temperatura superficiale del mare dipende su larga scala dai flussi di calore atmosferici, ma su scale più piccole (decide di chilometri) contiene informazioni relative alle correnti marine: l’andamento temporale della temperatura in un punto del mare e quella di un altro punto “connesso” tramite una corrente marina sono fortemente correlate. Il metodo identifica regioni uniformi nelle loro proprietà fisiche e di trasporto, per poi connetterle tra loro qualora il segnale si propaghi da una regione ad un’altra, usando una tecnica di apprendimento automatico (machine learning in inglese).

La prima applicazione di questo approccio si è focalizzata sul Mar Mediterraneo dal 1987 al 2017. Il Mar Mediterraneo è un bacino ricco di biodiversità, che ospita circa 17.000 specie diverse in un volume che rappresenta solo lo 0.32% dell’oceano globale. Purtroppo, il Mediterraneo è un bacino profondamente minacciato dai cambiamenti climatici e dagli effetti antropici. Negli ultimi decenni, la temperatura dell’acqua è aumentata in modo significativo, soprattutto a est del Canale di Sicilia, minacciando biodiversità e habitat locali. Inoltre, l’invasione di specie aliene tipiche di mari più caldi e favorita dall’apertura del Canale di Suez, ha messo ulteriormente a rischio la biodiversità locale.

I risultati dello studio hanno evidenziato l’esistenza di ecoregioni marine ben distinte, che sono cambiate in modo significativo nel periodo analizzato. Ad esempio, è stato possibile associare i cambiamenti delle correnti superficiali alla “frammentazione” o alla estensione delle ecoregioni in certi periodi, capire se tali cambiamenti stiano interessando regioni ad elevata biodiversità, e determinare quali dinamiche siano favorevoli o sfavorevoli alla diffusione di specie invasive. Di particolare interesse è l’analisi della diffusione di una delle specie tropicali più invasive e pericolose per l’ecosistema, tra quelle immigrate nel Mediterraneo attraverso il canale di Suez, il “Lionfish”  (Pterois miles). I primi avvistamenti di individui di questa specie (Figura 1)risalgono al 1991 al largo della costa di Israele. La sua diffusione, però, ha subito una battuta d’arresto nel ventennio successivo, nonostante la temperatura superficiale nel bacino abbia raggiunto un livello ideale alla sua riproduzione a partire dalla seconda metà degli anni ’90. Lo studio ha rivelato che la frammentazione delle ecoregioni nella parte sud del bacino orientale del Mediterraneo tra la fine degli anni ‘90 e i primi anni 2000 ha frenato l’invasione del Lionfish. D’altro canto, la rapida diffusione osservata a partire dal 2012 è stata alimentata da un cambiamento delle correnti oceaniche, probabilmente dovuto a variabilità naturale su scale temporali di circa dieci anni, che ha causato l’aumento dell’estensione e della connettività delle ecoregioni coinvolte, come indicato nella Figura 1. 

ecoregioni oceaniche
Figura 1: Ecoregioni del Mar Mediterraneo e relativa connettività. In alto sono illustrate le ecoregioni identificate per il Mar Mediterraneo, in tre diversi periodi all’interno del trentennio esaminato. I diversi colori corrispondono a una diversa inter-connettività dell’ecoregione: Regioni blu sono più “isolate” e meno interconnesse di regioni rosse. In basso sono invece riportati alcuni esempi di connessioni tra aree diverse, corrispondenti ai periodi mostrati. Il colore della connessione rappresenta il livello di connettività tra le ecoregioni che unisce, rappresentate dai nodi. Più è alto questo valore, maggiore è la connettività tra le due ecoregioni. Il periodo centrale (2004-2010) è caratterizzato da un grande frazionamento delle ecoregioni orientali e da una ridotta connettività.

Oltre la metà dell’ossigeno che respiriamo è prodotto dalla fotosintesi marina. L’uso sostenibile degli oceani e delle loro risorse è fondamentale per la sopravvivenza dalla specie umana ed è intrinsecamente collegato alla biodiversità e allo stato di salute degli ecosistemi marini. Per ripristinarne le componenti minacciate e degradate, un primo passo consiste nell’identificare le ecoregioni, la loro connettività, e come esse variano. L’uso di strumenti matematici sofisticati come le “Complex-Networks” e l’apprendimento automatico, abbinato alla conoscenza dell’oceanografia fisica, introduce un nuovo strumento per valutare il contributo delle correnti oceaniche alla ecoregionalizzazione e connettività biologica. Il tutto avviene a partire dai dati di temperatura alla superficie dell’oceano che i satelliti misurano quotidianamente. Il metodo proposto rappresenta un esempio di approccio interdisciplinare, più completo ed inclusivo, che mescola scienze e tecnologia, e coinvolge oceanografi fisici, biologi e matematici. Questo tipo di approccio è indispensabile per risolvere la complessa crisi ambientale che attanaglia il pianeta Terra e per garantire un futuro sostenibile a tutti gli oceani.  

di Lyuba Novi, IGG-CNR, e Annalisa Bracco, Georgia Tech.

Rinnovabili •
About Author / Stefania Del Bianco

Giornalista scientifica. Da sempre appassionata di hi-tech e innovazione energetica, ha iniziato a collaborare alla testata fin dalle prime fasi progettuali, profilando le aziende di settore. Nel 2008 è entrata a far parte del team di redattori e nel 2011 è diventata coordinatrice di redazione. Negli anni ha curato anche la comunicazione e l'ufficio stampa di Rinnovabili.it. Oggi è Caporedattrice del quotidiano e, tra le altre cose, si occupa delle novità sulle rinnovabili, delle politiche energetiche e delle tematiche legate a tecnologie e mercato.