Ogni anno migliaia di persone muoiono a causa di eventi sismici, eppure ancora oggi non siamo in grado di prevederli con relativa sicurezza e sufficiente anticipo
Dalle profondità del sottosuolo di Wenchuan, nella provincia cinese del Sichuan, il 12 maggio 2008 alle 14:28 (ora locale) partì una fortissima vibrazione del terreno. In pochi secondi ogni edificio, strada, infrastruttura nel raggio di 400 chilometri crollò, uccidendo oltre 70.000 persone.
A poco meno di tre mesi dall’inizio delle Olimpiadi, la nazione più popolosa e una delle maggiori potenze economiche mondiali, si è ritrovata a fare i conti con una delle tragedie più devastanti della sua storia recente, dimostrando tutta la vulnerabilità dell’uomo di fronte all’evento naturale catastrofico più terribile. Il terremoto.
La parola terremoto deriva dal latino terrae motus e significa letteralmente movimento della terra. Da un punto di vista sociale è sinonimo di distruzione e morte senza preavviso. Terremoto significa terrore.
I fenomeni sismici sono, infatti, quelli che rimangono più impressi, perché colpiscono all’improvviso e in modo molto rapido, senza lasciare il tempo di scappare, mettendo in dubbio la stabilità del suolo dove camminiamo, viviamo e costruiamo casa. Ma quando accadono e perché?
Per secoli i terremoti hanno rappresentato un mistero per tutti gli studiosi, e le loro cause sono rimaste a lungo confinate nel mito e nella superstizione popolare di ire e maledizioni degli dei.
Relativamente da poco i geologi sono risaliti all’origine ultima delle forze scatenanti questi fenomeni. Solo nel 1968 con la formulazione della teoria della tettonica delle placche si comprese che la superficie della Terra non è un sistema statico, bensì in costante e lento movimento.
La crosta terrestre più superficiale, la litosfera, è in pratica costituita da 20 placche rigide che si muovono costantemente e in modo indipendente le une rispetto alle altre (con una velocità tra i 2 e i 5 centimetri l’anno). Il movimento è provocato dalla formazione di nuova crosta lungo le dorsali oceaniche, mentre quella vecchia sprofonda, in corrispondenza delle fosse oceaniche, nello strato sottostante, l’astenosfera, costituito da materiale più plastico e caldo.
Nelle zone di contatto delle placche, a causa dei continui movimenti, si creano per fasce larghe un centinaio di chilometri, una serie di fratture e crepe, le cosiddette faglie. Qui le rocce deformandosi accumulano una grande quantità di energia.
Il terremoto quindi, dal punto di vista della Terra, non è altro che un processo di “rilassamento”, che permette alle rocce deformate dalle forze tettoniche di ritornare alla loro forma originale. Questi costanti sollevamenti e abbassamenti della crosta sono inoltre all’origine della formazione delle catene montuose.
Fu Charles Richter nel 1935 a valutare per primo l’energia liberata da un terremoto attraverso una grandezza convenzionale, la magnitudo, ricavabile dalla misura delle massime oscillazioni registrate dai sismografi, gli strumenti che registrano le onde sismiche.
In teoria non esiste un limite superiore di magnitudo perché esso è legato alla massima resistenza delle rocce. I terremoti con magnitudo superiore a 7,0 si considerano altamente distruttivi.
Il terremoto più intenso e violento che sia stato registrato accadde il 22 maggio 1960 a Valparaiso nel Cile meridionale e causò circa 5.700 morti, ma il bilancio poteva essere molto più grave se l’area colpita fosse stata più densamente abitata. Quel giorno i sismografi registrarono magnitudo 9,5.
Le faglie non sempre sono visibili direttamente, ma dove si mostrano appaiono come lunghe cicatrici sul volto della Terra.
La faglia di Sant’Andreas, in California, forse la più famosa per i devastanti terremoti che si sono verificati nelle sue immediate vicinanze, è lunga 1.287 chilometri. Non si è più mossa dal 1906. Prima o poi, forse molto presto, si verificherà un altro evento di rilassamento e il terremoto sarà di enormi proporzioni, il “Big One”. Si presume che in quell’occasione la California si distaccherà dal continente americano. Città celebri in tutto il mondo, come Los Angeles e San Francisco, in un attimo potrebbero sparire per sempre.
La durata di un sisma dipende dalla magnitudo, dalla distanza dall’epicentro e dalla geologia del terreno (suoli incoerenti e morbidi amplificano le onde sismiche). Le scosse comunque non durano a lungo, da pochi secondi, a poco meno di un minuto, ma sono sufficienti pochi istanti di tremore perché si producano effetti devastanti.
Le vibrazioni del terremoto di San Francisco del 1906 durarono circa 40 secondi, tuttavia bastarono a radere al suolo l’intera città. La maggior parte delle vittime (3.000 stimate) furono provocate dagli scoppi dei tubi del gas e i conseguenti incendi. I vigili del fuoco ci misero tre giorni ad estinguerli, a causa delle condutture dell’acqua interrotte.
L’entità dei danni dipende quindi fortemente dalla tipologia edilizia e dal grado di protezione delle infrastrutture di servizio e delle vie di comunicazione.
Il sisma più catastrofico che si ricordi in Italia, quello del 1908 a Messina e Reggio Calabria, causò il crollo di più del 90% delle case delle due città e dei piccoli paesi limitrofi, proprio perché tutti gli edifici erano stati costruiti senza alcun accorgimento antisismico. Ancora oggi tra gli esperti sussiste grande incertezza sul numero totale di vittime, che oscillerebbe tra le 90.0000 e le 170.000, la maggior delle quali morirono probabilmente per l’impossibilità dei soccorsi di arrivare tempestivamente a causa delle strade completamente inagibili.
L’epicentro del terremoto di Messina fu localizzato in mare. Durante il sisma, infatti, si abbatté sulle coste siciliana e calabrese, un’enorme ondata di marea, accrescendo i già gravissimi danni. È stato poi scoperto che la faglia responsabile di tutti i sismi della zona si trova a circa 3.000 metri di profondità sotto il fondale dello Stretto.
In Giappone, il Paese forse più colpito al mondo dai terremoti proprio perché si colloca sopra un’intersezione di placche tettoniche ad alta pericolosità sismica, hanno un nome particolare per indicare i maremoti, cioè i sismi che hanno epicentro in mare aperto: tsunami.
Questa parola è rimasta per sempre nell’immaginario collettivo il 26 dicembre 2004, quando al largo della costa settentrionale dell’isola di Sumatra, in pieno Oceano Indiano, una violentissima scossa di magnitudo 9,0, provocò onde alte più di 30 metri che spazzarono via le coste di Indonesia, Thailandia, Sri Lanka e India e cancellarono intere isole. I morti accertati furono più di 200.000.
La faglia che causò questo evento catastrofico è quella che divide la placca indoaustraliana da quella eurasiatica, ed è la stessa che ha originato la catena montuosa dell’Himalaya. Il 20 per cento dei terremoti si verifica proprio lungo la fascia alpidica, che parte dal centro dell’Atlantico, passa per il Mediterraneo e continua per la faglia Himalaiana.
Il maggior numero di eventi sismici mondiali, il 70 per cento circa, avviene, lungo la cosiddetta cintura di fuoco circumpacifica, che contorna l’Oceano Pacifico. In tale fascia sono comprese regioni altamente a rischio, come il Giappone, le Filippine, il Cile, la California e diverse catene insulari vulcaniche, come le Isole Aleutine.
Una terza fascia sismica importante si estende per migliaia di chilometri attraverso tutti gli oceani. Coincide con il sistema di rilievi sui fondali (le dorsali oceaniche) ed è caratterizzata da movimenti tellurici di bassa intensità, ma frequenti.
La distribuzione geografica dei terremoti non è quindi casuale, ma si concentra principalmente lungo queste tre fasce di attività. Anche nel modo in cui i terremoti si ripetono nel tempo, sembra si possa riconoscere una certa ciclicità. Ciò rappresenterebbe la conferma della teoria della tettonica delle placche.
Sulla base di queste considerazioni, i sismologi di tutto il mondo, dall’US Geological Survey (USGS), all’Istituto per la ricerca sismica di Tokyo, passando dal nostro Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, sono impegnati a rispondere alla domanda più importante: i terremoti seguono schemi chiari e regolari e quindi sono prevedibili, oppure sono casuali e caotici?
Parkfield è un piccolo e assonnato paese della California centrale. Qui non sono mai avvenuti terremoti molto intensi, al massimo di magnitudo 6,0, ma con una certa frequenza. La cittadina è situata, infatti, sulla faglia di San Andreas.
Ciò che più deluse i ricercatori non fu tanto il “ritardo” di 14 anni sulla previsione, bensì la totale assenza di segni premonitori, ossia di quelle anomalie geofisiche come l’aumento delle deformazioni del suolo, le variazioni nelle caratteristiche delle rocce e nella quantità di alcuni gas, quali radon ed elio, nel sottosuolo oppure i movimenti anomali delle acque sotterranee, che spesso preannunciano movimenti della terra imminenti. I terremoti sembravano quindi del tutto imprevedibili.
Ma la ricerca non si ferma. Dalla fine del 2004 Parkfield è sede di uno dei più importanti e ambiziosi progetti di sismologia, il San Andreas Fault Observatory at Depth (SAFOD). Nel 2005 una trivella alta 55 metri ha perforato la faglia raggiungendone la massima profondità, tre chilometri. L’idea è di poter “guardare”, attraverso appositi strumenti di misura, quello che succede dentro la faglia, laddove cioè partono i terremoti. È uno studio mai tentato prima che potrebbe fornire la chiave per prevedere gli eventi sismici con relativa sicurezza e soprattutto sufficiente anticipo.
Attualmente le previsioni sono invece di tipo probabilistico. Lo studio dei dati geologici permette di stimare unicamente la probabilità che in un dato territorio e in un certo intervallo di tempo si verifichi un sisma in un determinato intervallo di magnitudo (la pericolosità sismica). Si tratta di previsioni a lungo termine e approssimative, che sono di scarsa utilità per un allarme alla popolazione.
L’osservazione dei fenomeni precursori, peraltro sempre di difficile individuazione e interpretazione, e della cosiddetta quiescenza sismica, ossia l’assenza di terremoti per un lungo periodo di tempo in un’area considerata ad elevata pericolosità, non da maggiori certezze.
Ogni anno, secondo il National Earthquake Information Center (NEIC) del USGS, uno dei principali centri sismologici internazionali, si registrano sull’intero pianeta alcuni milioni di terremoti. La maggior parte non sono percepiti dall’uomo perché avvengono in aree remote oppure sono di magnitudo troppo bassa per essere avvertiti, e quindi sono registrati solo dai sismografi. Circa 60 sono classificati distruttivi e una ventina sono quelli di forte intensità, cioè con magnitudo superiore a 7,0. È un numero impressionante.
In attesa di risultanti incoraggianti da Parkfield, affidarsi alla leggendaria sensitività degli animali nell’imminenza del terremoto, potrebbe non essere sufficiente.
L’unica difesa efficace, allora, non avendo per ora mezzi di previsione attendibili, è la prevenzione del rischio. Non potendo mitigare la pericolosità, bisogna diminuire la vulnerabilità e l’esposizione delle infrastrutture e delle persone. Attraverso l’applicazione a larga scala delle tecniche edilizie antisismiche, non solo per gli edifici nuovi, ma anche per quelli esistenti, e una corretta pianificazione territoriale che tenga conto delle carte di pericolosità sismica, si potrebbero evitare ogni anno decine di migliaia di morti.
Se non ci faremo cogliere impreparati, la prossima volta che il terremoto colpirà non ne avremo più il terrore.