Un sistema che ha bisogno di impianti sparsi su tutto il territorio, per permettere una maggiore efficienza e consentire al nostro Paese di raggiungere gli obiettivi europei. Diventa necessario sfruttare il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) come spunto per colmare le carenze. Catturare e prendere in considerazione tutte le tecnologie utilizzabili in questo settore
di Tommaso Tetro
Evento dell’Ispra ‘Transizione ecologica aperta’.
(Rinnovabili.it) – Un sistema, quello del riciclo dei rifiuti, che ha bisogno di impianti sparsi su tutto il territorio, per permettere una maggiore efficienza che consenta al nostro Paese di raggiungere gli obiettivi europei, sfruttando le risorse del Recovery fund. E’ questo il tema al centro del primo evento dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) nell’ambito del progetto ‘Transizione ecologica aperta (Tea)’.
“Dove gli impianti non ci sono i cittadini spendono molto di più ogni anno per la gestione dei propri rifiuti – mette in evidenza Valeria Frittelloni dell’Ispra – nel Lazio sul 2019 ogni cittadino ha speso per i propri rifiuti 221 euro, in Liguria addirittura 254 euro a fronte di 139 euro che spendono in Lombardia. Il trattamento di prossimità è una necessità economica; gli impianti servono, soprattutto quelli della frazione organica che oggi costituisce il 25% del riciclato italiano; ci sono intere aree del nostro Paese che non sono dotate di un’impiantistica adeguata: dei 650 impianti in Italia, più della metà sono al Nord del Paese. L’opportunità del Recovery fund appare oggi più che mai fondamentale per colmare questi gap che oggi incidono pesantemente sulla gestione dei rifiuti”.
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La linea che emerge è segue un’idea: diventa necessario sfruttare il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) come spunto per colmare quelle carenze che ancora permangono. Il concetto è quello di catturare e prendere in considerazione tutte le tecnologie utilizzabili in questo settore.
“Gli impianti oltre a smaltire producono energia – osserva Filippo Brandolini, vicepresidente di Utilitalia (la Federazione delle imprese di acqua ambiente e energia) presentando i dati di uno studio realizzato da alcuni istituti Politecnici – il contributo degli impianti di termovalorizzazione sulle emissioni è marginale: il PM10 è pari allo 0,03% rispetto a tutte la altre fonti di emissioni, le diossine sono lo 0,2% rispetto al totale delle altre emissioni industriali, residenziali e commerciali”.
“Gli inceneritori hanno impatti ambientali inferiori rispetto alle discariche, che rimangono tali per molti decenni”; e in merito ai rischi sanitari sui potenziali impatti degli impianti di incenerimento sulla salute dei cittadini – rileva Brandolini – “se si considerano quelli di ultima generazione non sono stati evidenziati fattori di rischio per la salute delle persone”. Il presidente del Conai Luca Ruini mette in evidenza la “necessità di avere impianti in particolare nell’area del Sud, accanto a una progettazione che possa portare a imballaggi sempre più inclini al riciclo”. E per Fise Assoambiente “bisogna applicare in maniera più consistente il principio di prossimità, e obbligare le regioni ad adempiere alle loro necessità. Il fabbisogno di impianti esiste in tutta la filiera, enorme per la frazione umida dei rifiuti”.