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A rischio lo smantellamento delle piattaforme offshore dismesse

L’epidemia di Cornavirus ed il conseguente crollo dei prezzi petroliferi ha portato ad una drastica diminuzione delle entrate. Le principali compagnie petrolifere potrebbero tagliare i fondi stanziati per il decommissioning delle vecchie trivelle in mare

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By Divulgação Petrobras / ABr – Agência Brasil [1], CC BY 3.0 br, Link

Crollo dei prezzi del greggio significa meno entrate e, quindi, taglio delle spese. Tra queste, anche quelle per lo smantellamento delle piattaforme dismesse

(Rinnovabili.it) – Il crollo dei prezzi del greggio ha costretto le compagnie petrolifere a “tagliare le spese”, rivendendo le priorità. E i primi fondi a saltare potrebbero essere quelli destinati allo smantellamento delle piattaforme petrolifere offshore più datate. Secondo quanto riferito  all’AFP dall’analista Sonya Boodoo (Rystad Energy), i budget assegnati per tali attività diminuiranno probabilmente di almeno il 10% nei prossimi due anni.

L’epidemia di Coronavirus ha portato ad un drastico calo delle entrate nel Big Oil, obbligando giganti del calibro di Total, Royal Dutch Shell e BP a tagli quantificati in miliardi di dollari. Le entrate andranno ridistribuite e poiché le spese per rimuovere un’attività non funzionale sono alte e meno allettanti di quelle per espandere la capacità esistente, il mercato rischia di tirare il freno. Non solo. In alcune regioni, la tecnologia necessaria per eseguire in modo efficiente lo smantellamento delle infrastrutture marine risulta carente, così come scarso appare il supporto dal quadro normativo.

In questi mesi Rystad Energy aveva già puntato i riflettori sul mercato del decommissioning nel Mare del Nord. Qui le trivelle hanno un’età media di 25 anni e si stima che vi siano oltre 2.500 pozzi di petrolio e gas che dovrebbero essere messi fuori servizio nel prossimo decennio. Di questi ben 1.500 sono del Regno Unito.

Prima dello scoppio della pandemia, per quanto riguarda lo smantellamento delle vecchie piattaforme in mare, l’associazione dell’industria petrolifera e del gas UK aveva stimato una spesa di circa 1,5 miliardi di sterline ogni anno fino al 2027.

Molte delle piattaforme del Regno Unito sono state costruite e progettate negli anni ’70spiega Romana Adamcikova, analista di Wood Mackenzie – “non si è mai pensato a come quelle strutture sarebbero state rimosse una volta giunte al loro fine vita. Ora però – evidenzia Adamcikova – l’impatto ambientale della disattivazione è diventato una questione spinosa”.

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Considerando che per le operazioni è necessario rimuovere oltre 1,2 milioni di tonnellate di calcestruzzo e acciaio, è presto spiegata la complessità e l’onerosità delle operazioni. La Convenzione per la protezione dell’ambiente marino nell’Atlantico nord-orientale, nota come OSPAR, proibisce infatti di lasciare sul posto – in tutto o in parte – impianti offshore in disuso. Tuttavia, la stessa OSPAR stabilisce anche la possibilità di esenzioni, cioè vere e proprie “deroghe” al divieto, che, in determinati scenari, consentirebbero agli operatori di non smantellare alcune strutture. 

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