Il global warming amplifica i fattori di rischio per il verificarsi di eventi meteorologici estremi. Un nuovo studio ne quantifica gli effetti sulle principali colture agricole
(Rinnovabili.it) – Con il consolidarsi del riscaldamento globale, la maggior parte dei modelli climatici prevede che sia la frequenza che l’intensità dei fenomeni meteorologici estremi – come uragani, inondazioni, siccità, ondate di calore, picchi di temperatura caldi e freddi ecc. – siano destinate ad aumentare generalmente in tutte le aree del mondo. L’International Panel on Climate Change (IPCC) ha sostenuto in vari report che la crescita di questi fenomeni impatterà specialmente sul settore agricolo, comportando stravolgimenti sulle rese dei raccolti e sulle economie delle comunità che da questi dipendono.
Ciò significa che grandi sforzi devono essere fatti nel tentativo di innalzare la loro resilienza. Tuttavia, per pianificare strategie efficienti in questo senso è necessario conoscere in maniera approfondita, da un lato le modalità di interazione tra i vari parametri climatici e le rese dei raccolti, e dall’altro come e quanto queste interazioni differiscano in base alle diverse colture ed alle regioni geografiche considerate.
Un team di ricercatori provenienti da Australia, Germania e Stati Uniti ha quantificato l’effetto degli eventi meteorologici estremi sulla variabilità della resa di alcune coltivazioni-base in diverse (e statisticamente rilevanti) parti del globo. Secondo l’articolo pubblicato sulla rivista scientifica Environmental Research Letters, le variazioni dei principali fattori climatici – quindi non solamente gli estremi – monitorati anno per anno durante la stagione della crescita di riso, soia, mais e grano hanno inciso con percentuali dal 20 al 49% sulle fluttuazioni dei raccolti prodotti.
Lo scopo dello studio era quello di “pesare” gli impatti di un clima più frequentemente soggetto a giornate con temperature particolarmente calde o fredde, precipitazioni straordinarie o periodi prolungati di siccità. Questi fattori, da soli hanno inciso invece per il 18-43% delle variazioni delle rese (vedi ultime due colonne in Tabella-1).
Per indagare a fondo gli impatti di questi fenomeni climatici sulle colture, i cui effetti sono di per sé molto difficili da quantificare con precisione data la complessità della scienza che li governa, i ricercatori hanno utilizzato un database globale ad elevata risoluzione spaziale che memorizza le caratteristiche geografiche delle zone analizzate e le loro rispettive colture, incrociandolo con un dataset statistico degli eventi meteorologici che si verificano ogni anno sul pianeta. Si è poi applicato un noto algoritmo basato sul machine learning (Random Forest), per indagare per ogni diversa coltura quali fattori climatici esercitino l’influenza maggiore sulla resa del raccolto.
“Sorprendentemente, abbiamo rilevato che i parametri climatici che determinano le maggiori anomalie sono quelli relativi alle temperature e non alle precipitazioni, come ci aspettavamo. In particolare, secondo i nostri dati, il ruolo dominante è attribuito alla temperatura media ed agli estremi caldi e freddi che occorrono durante la stagione della crescita” sostiene la dottoressa Elizabeth Voghel, del Centre of Excellence for Climate Extremes dell’Università di Melbourne, lead-author dello studio.
Lo studio avverte anche come mediamente, le poche aree del Pianeta che producono la grande maggioranza dei prodotti agricoli destinati al consumo mondiale, siano anche le più suscettibili a variabilità climatica, ad eventi meteorologici estremi e per questa ragione particolarmente vulnerabili. Prosegue la dott.ssa Voghel: “abbiamo notato che la maggioranza di queste regioni, cruciali per la sussistenza della catena di produzione globale del cibo e fortemente vulnerabili, si trovano in zone industrializzate del Pianeta come Nord America ed Europa”. I dati in effetti, mostrano vulnerabilità particolarmente elevate per le coltivazioni di soia in Nord America, di grano in Europa e di riso in parte dell’Asia.
Lo studio infine mette in guardia sulla fragilità delle regioni meno industrializzate in cui vivono comunità direttamente dipendenti dall’andamento dei raccolti agricoli, per le quali eventuali anomalie non solo si ripercuoterebbero sulle loro economie, ma metterebbero in crisi la sicurezza alimentare locale. “Le analisi ci dicono ad esempio, che la resa delle colture di mais in Africa mostra una delle più forti relazioni di influenza con la variabilità climatica in assoluto. La gran parte del raccolto in questo caso rimane ai consumi di quella regione, e questo farà sì che con l’aumentare degli impatti la sicurezza alimentare locale sarà sempre più in crisi”, conclude la Dott.ssa Voghel.
In un contesto di climate change come quello a cui ci stiamo avviando e che stiamo già in parte sperimentando, caratterizzato da maggior variabilità climatica e soggetto ad eventi meteorologici estremi più frequenti e potenzialmente più gravi, crescente sarà l’importanza – al pari delle strategie di mitigazione – di quelle che mirano ad un adattamento delle catene di produzione di cibo per garantire la sicurezza alimentare ad ogni regione del mondo. L’incremento della resilienza rispetto agli estremi ed alla variabilità climatica necessita sforzi sinergici a livello locale, nazionale e ed internazionale al fine di ridurre gli effetti negativi per i coltivatori e per le comunità, le cui esistenze dipendono direttamente dalla buona riuscita dei raccolti.