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Mozambico, la situazione dopo i cicloni Kenneth e Idai

La situazione nel Paese africano continua ad essere molto difficile: oltre 72.700 sfollati mentre le piogge rendono alcune aree irraggiungibili e si lotta con il colera

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Dopo i cicloni  il Mozambico deve affrontare il delicato momento del post disastro. Parola a Cuamm-Medici con l’Africa e Caritas (Area pace e mondialità)

(Rinnovabili.it) – Nei primissimi giorni del mese di maggio, il Mozambico è stato interessato da fenomeni metereologici piuttosto consistenti: stiamo parlando dei cicloni Kenneth e Idai, una combinazione micidiale che ha portato vittime, distruzione e inondazioni. Le zone più colpite sono quelle della città di Beira e la provincia di Cabo Delgado, a nord del Paese e, stando ai numeri di Medici senza frontiere, gli sfollati sono ad oggi oltre 72.790. E il ‘post disastro’ non è certo più facile. All’inizio di maggio le autorità sanitarie hanno registrato lo scoppio di un’epidemia di colera: il governo ha avviato rapidamente una campagna di vaccini nella zona di Cabo Delgado e la situazione pare sia sotto controllo. Per fare il punto sulla situazione abbiamo contattato Andrea Atzori, di Cuamm-Medici con l’Africa: «Si sono verificati degli episodi di colera, sia a Beira che a Cabo Delgado: la risposta mozambicana è stata abbastanza efficiente e c’è stato un discreto controllo del tutto. Nelle zone alluvionate, in parte, l’acqua si sta ritirando e stiamo riprendendo con alcuni servizi e la zona che richiede maggiore intervento è quella di Cabo Delgado».

 

 

 

La situazione appare ancora molto complicata anche alla luce delle previsioni fornite dall’Instituto Nacional de Meteorologia del Paese il quale ha previsto piogge ingenti per tutta la settimana nella zona di Cabo Delgado. «Il vero danno –  ha proseguito Atzori – è che una buona parte della popolazione viveva di agricoltura di sussistenza: non aveva beni, averi o risparmi e il ciclone è andato a distruggere le uniche due certezze di questi nuclei familiari, ovvero campi ed abitazioni. Probabilmente avremo una parte della popolazione che dovrà essere assistita almeno per 6-12 mesi: avendo perso l’unico sostentamento è richiesta un’assistenza immediata e diretta».

 

Nei giorni a ridosso dell’emergenza, Andrea Atzori ha spiegato che Cuamm-Medici con l’Africa ha agito in modo tempestivo su due emergenze contigue nelle località prima citate: «Avevamo già personale e progetti avviati in loco dunque siamo intervenuti con azioni riguardanti l’approvvigionamento per persone che erano rimaste senza casa, rintracciamento di persone disperse e ricongiungimento familiare e una fornitura di servizi sanitari d’emergenza immediati. Una volta analizzati i danni alle strutture sanitarie della città, abbiamo riavviato i servizi di base e, oltre a questo, creare attività di outreach dei sistemi sanitari nei confronti delle comunità colpite le quali, in parte, erano ancora nelle loro aree, in parte sono state alloggiate in campi [provvisori] organizzati dalla protezione civile mozambicana. Per mettere in atto questa strategia abbiamo diviso il nostro intervento in due filoni: il primo riguardante i servizi sanitari nei centri, di concerto con le autorità mozambicane, il secondo concernente la formazione e l’invio di circa 300 attivisti nelle località colpite che sarebbero andati famiglia per famiglia, tenda per tenda per capire quali fossero le esigenze sanitarie specifiche di ognuno, fornire loro cibo e il kit per l’acqua pulita».

 

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In Mozambico, fino a qualche anno fa, operava anche la Caritas Italiana con progetti nelle carceri, a sostegno di comunità periferiche della città con lavori di istruzione e sostegno scolastico, nell’assistenza – con l’aiuto delle suore scalabriniane – dei rifugiati provenienti da Sudafrica e eSwatini. Un sostegno che fosse a lungo termine e che gettasse le basi per la formazione di operatori locali che fossero in grado di continuare coi percorsi avviati. Abbiamo chiesto ad Oliviero Bettinelli, responsabile dell’Area Pace e Mondialità della Caritas di Roma, il suo parere riguardo la situazione attuale «Come Caritas – ha affermato Bettinelli – facciamo parte di una “rete” che comprende tutte le Caritas nazionali che, durante le grandi emergenze, si coordinano con Caritas Internationalis e intervengono. Nell’intervenire abbiamo un primo step che è quello di un monitoraggio di situazioni di emergenza, tenendo conto del fatto che di qualsiasi emergenza si tratti, il primo aiuto immediato lo si ha dai locali stessi. Nel mentre che dall’Italia ci organizziamo e arriviamo in loco, trascorrono quei giorni che sono fondamentali per salvare vite umane». Anche secondo Oliviero Bettinelli, il rischio di colera c’è ed è consistente: «il rischio è effettivo, stando ai dati su cui ci basiamo: la maggior parte delle persone sono decedute per esondazione dei fiumi, non tanto a causa del ciclone o del vento: è un problema reale che nasce dove la fragilità strutturale di alcuni territori rendono sempre più possibili queste conseguenze, a latere di un’esondazione».

 

Per Bettinelli, tuttavia, il problema del territorio mozambicano, presenta una serie di problematiche non indifferenti anche  legati «alla fauna locale»: «i coccodrilli, ad esempio, hanno creato una serie di questioni non trascurabili». Ma oltre al problema della fauna ce n’è uno più amministrativo: «C’è anche una problematicità legata alla mancata registrazione – e controllo – degli archivi delle nascite e di chi risiede nelle aree rurali: di fatto, un numero preciso di morti le autorità mozambicane non ce lo avranno con estrema certezza»

Il fattore più negativo, secondo Oliviero Bettinelli, sta nel fatto che il progetto, una volta avviato e formato il personale locale, fatica a continuare  il suo percorso una volta lasciato il paese: «Questo, purtroppo lo abbiamo toccato con mano in molte situazioni e anche in Mozambico, in cui operavamo dal 1999, è stato così». «Certo è – ha concluso Bettinelli – che bisogna aiutare ascoltando i bisogni delle comunità locali: se si arriva dall’Italia, o comunque dal ‘nord del mondo’ con l’intento di dire “costruiamo case, portiamo trattori” e altri beni materiali che in seguito le comunità non sanno gestire, né ricostruire, né far funzionare una volta che il progetto finisce, significa rimanere dentro una logica tutta occidentale del concetto di aiuto. Un supporto che è limitato a quello che io ritengo sia un aiuto: ecco perché non bisognerebbe avere prospettive di breve termine ma sempre di lunga durata».