Raggiunto il primo accordo mondiale giuridicamente vincolante sulle emissioni degli idrofluorocarburi. L’intesa divide i Paesi in tre gruppi con differenti scadenze, ma l’azione è spostata troppo in avanti nel tempo
(Rinnovabili.it) – L’Accordo di Parigi, pur nella sua poca concretezza, ha avuto il beneficio di mettere d’accordo i grandi inquinatori sulla necessità di un’azione climatica comune, creando le giuste premesse per un secondo accordo sulle emissioni. Quello che si è schiuso a venerdì notte a Kigali, capitale del Ruanda quando oltre 200 Paesi, dopo sette anni di negoziati, hanno approvato un emendamento al Protocollo di Montreal sulle sostanze che riducono lo strato di ozono. In una prima volta, definita dall’Onu come “storica”, si è trovato un accordo giuridicamente vincolate su uno dei gas serra oggi più temuto nella lotta al global warmig: gli idrofluorocarburi o HFC.
Cosa sono gli idrofluorocarburi?
Usati come refrigeranti in sostituzione dei clorofluorocarburi o CFC (ben più pericolosi in termini di distruzione dello strato di Ozono atmosferico), gli HFC non hanno tardato a rivelare le proprie pecche. Se da un lato, infatti, l’assenza del cloro nella loro composizione determina un effetto praticamente nullo sull’Ozono, dall’altro sono dotati di un elevato potenziale di riscaldamento globale (un effetto serra fino a 10.000 volte più potente della CO2). Ma in un mondo che si riscalda progressivamente, l’uso dei refrigeranti diventa sempre più necessario e impegnativo, intrappolando causa ed effetto in una sorta di circolo vizioso: più le temperature si alzano, più – in mancanza di alternative – l’uso degli HFC è destinato a crescere.
Cosa prevede l’intesa sui gas serra HFC
Come per l’intesa globale sul clima, anche in questo caso, i negoziati vis-à-vis di Cina e Stati Uniti hanno aiutato a spianare la strada verso l’obiettivo finale. L’accordo divide i paesi in tre gruppi con differenti scadenze temporali per la riduzione degli idrofluorocarburi: le economie industrializzate – USA compresi – inizieranno a tagliare l’uso di questi gas, seguiti a partire dal 2014 dalla Cina e da oltre 100 Paesi in via di sviluppo. Un terzo gruppo di nazioni, inclusa l’India e il Pakistan, hanno sostenuto che le loro economie hanno bisogno di più tempo per crescere e cominceranno a muoversi invece nel 2028. Alla fine del 2040, tutti i Paesi sono tenuti a consumare non più del 15-20 per cento delle loro rispettive linee di base, prevedendo sanzioni per chi non dovesse rispettare le scadenze convenute.
L’accordo prevede inoltre che vengano forniti finanziamenti adeguati per la riduzione degli HFC, il cui costo è stimato in miliardi di dollari a livello globale. L’importo esatto del finanziamento supplementare sarà concordato in occasione della prossima riunione delle parti a Montreal, nel 2017, la cui priorità sarà quella di stabilire le sovvenzioni per la ricerca e lo sviluppo di alternative a prezzi accessibili.
Pro e contro dell’accordo di Kigali
A differenza l’Accordo di Parigi o della più recente intesa sul taglio delle emissioni dell’aviazione, il Kigali Agreement è giuridicamente vincolante, ha date precise e contiene un accordo da parte dei paesi ricchi per aiutare i paesi poveri ad adattarsi al necessario cambiamento tecnologico (i primi 80 milioni sono già stati versati in un fondo ad hoc). Gli esperti ritengono che una rapida riduzione di questi gas serra potrebbe costituire un importante contributo al rallentamento del cambiamento climatico, evitando l’aumento di 0,5 gradi Celsius.
Peccato che con scadenze temporali così protratte nel tempo, non si possa davvero parlare di una rapidità d’azione. Secondo il presidente dell’Istituto per la governance e lo sviluppo sostenibile, Dur wood Zaelke, l’obiettivo finale verrà centrato solo al 90%.