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Clima, un bene comune da tutelare assieme

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Credt: niekverlaan (pixabay.com)

 

Il Summit mondiale sul clima a New York, ha preso atto di come il cambiamento climatico sia un dossier non più rinviabile, ha stabilito che, entro il 2050, i 66 Paesi del mondo firmatari dell’accordo dovranno raggiungere le zero emissioni. Questo primo risultato del summit lascia ben sperare, specie se messo in relazione con un risveglio delle coscienze collettive (e le manifestazioni a sostegno dell’ecosistema di venerdì scorso celebrate in oltre 180 piazze italiane ne rappresentano una testimonianza concreta).

Come tutti gli italiani hanno avuto modo di constatare sulla propria pelle, lo scorso luglio è stato in assoluto il mese più caldo mai registrato a livello globale, a causa dell’effetto serra dovuto alle continue emissioni inquinanti. Purtroppo l’aumento delle temperature è un fenomeno in continua evoluzione, e sembra non arrestarsi. Petteri Taalas, il segretario dell’Organizzazione meteorologica mondiale (WMO) non ha esagerato quando, qualche giorno fa, ha dichiarato che l’anno che sta per concludersi ha «riscritto la storia del clima, con dozzine di nuovi record della temperatura, registrati a livello locale, nazionale e globale». Il clima è un bene comune, è collegato all’agricoltura, al nostro tempo libero, alla nostra stessa esistenza sul pianeta e non ci rendiamo conto di come tutto è collegato, come non c’è più tempo da perdere.

 

Si prevede, infatti, che, in assenza di efficaci politiche di riduzione delle emissioni, la temperatura globale possa aumentare fra 1,1 e 6,4°C. Intanto gli effetti del riscaldamento globale sono sotto gli occhi di tutti: inondazioni, siccità, piogge intense e ondate di calore, accompagnati da incendi boschivi, scarsità delle risorse idriche, scomparsa dei ghiacciai e innalzamento del livello del mare, solo per citare alcuni fenomeni a cui la popolazione mondiale assiste inerme.
I nemici del cambiamento climatico sono tanti, e pressoché derivanti tutti dalle attività antropiche, ossia dalle attività umane, come ad esempio: la combustione di carburanti fossili, il disboscamento e determinati processi industriali e di trasformazione nel settore agroalimenatare, questi producono emissioni dannose per l’ambiente, provocando il famigerato “effetto serra”, una coltre che impedisce la dispersione nello spazio del calore che viene irradiato dalla superficie terrestre, provocando il riscaldamento globale. L’anidride carbonica, insieme agli altri gas climalteranti come il protossido di azoto (N2O), il metano (CH4) ancora più pericoloso della CO2, e i clorofluorocarburi (CFC) contribuiscano ad aumentare l’effetto serra naturale, provocando l’aumento in intensità e frequenza di fenomeni meteorologici estremi quali temperature eccessivamente elevate o estremamente rigide, e causando fuori stagione nevicate a bassa quota, venti eccezionalmente forti, bombe d’acqua e intense grandinate alternate a periodi di forte siccità.

 

Tutto ciò ha un prezzo, sociale e materiale. Attualmente, i costi correlati al dissesto idrogeologico del territorio italiano sono stimati in circa 2,5 miliardi di euro all’anno, ma la cifra potrebbe aumentare nel corso dei prossimi decenni come anche i costi legati al contenimento degli incendi e alla messa in sicurezza dei territori. Se vogliamo davvero evitare i rischi più gravi legati al cambiamento climatico, e in particolare conseguenze irreversibili su ampia scala, dobbiamo fare in modo che il riscaldamento globale rimanga al di sotto dei 2 ºC sopra i livelli del periodo pre-industriale. Altrimenti i rischi saranno incalcolabili.

L’allarme lanciato appena qualche giorno fa circa il possibile crollo del ghiaccio Planpincieux del Monte Bianco costituisce il caso concreto di come, anche nel nostro Paese, gli aspetti legati al climate change siano attuali e non più rinviabili. Il disfacimento della calotta polare sta provocando un innalzamento del livello del mare, che potrebbe giungere fino a 7 metri. Gli italiani non possono che essere fortemente preoccupati, immaginando gli impatti potenzialmente apocalittici e disastrosi per le regioni insulari, la Sicilia, la Sardegna, e per quelle come la Puglia che hanno sviluppato la loro economia e gli insediamenti urbani sulle coste. Tutto il Mediterraneo è a forte rischio. È già noto l’aumento della fascia di desertificazione dovuto al cambiamento climatico, che attraversa ben 10 Paesi africani, e del corridoio di siccità del sud America, e le conseguenze che ne derivano.

 

Ancora molte sono le cose da fare e altrettanti, ancora, gli obiettivi da traguardare. Occorre innanzitutto adottare misure che incentivino prassi socialmente responsabili da parte delle imprese. Occorre promuovere lo sviluppo tecnologico e le ricerche più innovative in modo da rendere quanto più efficace la “transizione ecologica” e indirizzare l’intero sistema produttivo verso un’economia circolare. Ideale punto di partenza potrebbe essere ogni iniziativa utile alla decarbonizzazione dell’economia, comunque garantendo la sicurezza del sistema energetico del Paese, fissando come obiettivo la strategia a lungo termine dell’UE per la riduzione delle emissioni di gas serra. Tale prima misura deve necessariamente essere accompagnata da molteplici iniziative capaci di favorire la transizione, dalle fonti energetiche fossili alle fonti rinnovabili, compatibilmente con la grid parity, e dall’economia lineare all’economia circolare, favorendo l’investimento nella ricerca e nelle eco-innovazioni. Un sostegno a tali ambiziosi traguardi potrà giungere dallo sviluppo di sistemi eco-efficienti di produzione ricorrendo alla bio-economia e all’eco-design.

Accanto a tali riforme strutturali, il piano educativo è un’ulteriore leva su cui investire se si vorrà davvero realizzare un radicale cambio di paradigma culturale, portando ad inserire la protezione dell’ambiente tra i principi fondamentali del nostro sistema costituzionale.

 

Per questo sarà cruciale promuovere campagne di sensibilizzazione e informazione rivolte ai cittadini, sulle buone pratiche ambientali finalizzate alla mitigazione del cambiamento climatico, magari sfruttando i programmi di educazione civica nelle scuole, recentemente introdotti dal Parlamento. Anche la promozione di politiche di sviluppo infrastrutturale e interventi finalizzati alla promozione di iniziative virtuose di mobilità urbana ed extraurbana sostenibile, potrà ben rappresentare un volano di crescita e compatibilità ambientale del nostro modo di vivere la città, riducendo progressivamente l’emissione di gas ad effetto serra, e tenendo conto dei benefici ambientali, sociali ed economici connessi alla riduzione delle emissioni.

 

Un nuovo modello di sviluppo, dunque, capace di guidare la transizione verso un modello social-ecologico dell’economia, che associ la tutela dell’ambiente con la creazione di occupazione e la lotta alle diseguaglianze, partendo dallo studio dei territori utilizzando un approccio sistemico per tutelare la resilienza del nostro ambiente. Ma questo non basta. Un’ecologia integrale deve guidare i nostri passi, il cambiamento che ogni essere deve apportare prima di tutto al suo interno, per riscoprire le virtù che si sono perse, perchè in realtà il problema più grande non è il riscaldamento globale ma la crisi dei valori; la tecnologia, le eco innovazioni sono guidate dalla mano dell’uomo e dal suo cuore, solo riscoprendo l’unità e abbandonando le lotte divisive, solo divenendo custodi e non padroni di Gaia, potremo affrontare le sfide del futuro.

 

 

di Sen. Patty L’Abbate
Ecological Economist PhD