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Attenzione alla plastica biodegradabile, l’impatto ambientale non è nullo

Un team di biologi dell’Università di Pisa spiega: necessari oltre 6 mesi prima che i sacchetti in bioplastica di nuova generazione si degradino

plastica biodegradabile

 

 

(Rinnovabili.it) – La plastica biodegrabile rappresenta una delle prime soluzioni ricercate al problema del marine littering, o più in generale all’inquinamento prodotto dai rifiuti in plastica. La stessa Commissione europea fa dell’alternativa bio uno degli strumenti chiave della sua prima Strategy for Plastics in a Circular Economy: il primo impegno in tal senso sarà quello di realizzare norme armonizzate per la definizione e l’etichettatura delle materie plastiche compostabili e biodegradabili. L’obiettivo è permettere ai consumatori di fare scelte d’acquisto più consapevoli, ma c’è un particolare su cui si insiste meno: la capacità di alcune molecole organiche complesse, d’essere trasformate velocemente in elementi inorganici non inquinanti dai microorganismi presenti in natura, non esime dal gestire questi rifiuti con particolare attenzione. Il perché lo spiega oggi un team di biologi dell’Università di Pisa. Il gruppo composto da Elena Balestri, Virginia Menicagli, Flavia Vallerini, Claudio Lardicci, ha studiato l’impatto delle buste in bioplastica di nuova generazione a livello dell’ambiente marino.

 

L’impatto ambientale dei sacchetti in plastica biodegradabile 

I risultati del lavoro, pubblicati sulla rivista scientifica “Science of the Total Environment”, mostrano come la plastica biodegradabile richieda più di sei mesi per essere smaltita dal mare. Ovviamente, in confronto ai trent’anni dei sacchetti in plastica tradizionale, i tempi sono decisamente ridotti ma bastano per alterare lo sviluppo delle piante e modificare alcune importanti variabili del sedimento marino come ad esempio ossigeno, temperatura e pH.

 

Per il loro studio, i biologi hanno allestito un ecosistema in miniatura, analizzando gli effetti della bioplastica degli shopper di ultima generazione su due piante acquatiche tipiche del Mediterraneo, la Cymodocea nodosa e la Zostera noltei.

“La nostra ricerca si inserisce nel dibattito sul “marine plastic debris”, cioè sui detriti di plastica in mare, un tema globale purtroppo molto attuale – commenta il professore Lardicci dell’Ateneo pisano – quello che abbiamo potuto verificare è che anche le buste biodegradabili di nuova generazione attualmente in commercio hanno comunque tempi di degradazione lunghi”. Dopo sei mesi di esposizione, la busta in plastica aveva ancora una massa considerevole (85% del peso iniziale) e aveva ridotto alcune variabili chimico/fisiche importanti  del sedimento, che influenzano direttamente lo sviluppo delle piante.

 

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Il processo di degradazione (immagine dell’Università di Pisa)

 

“Ad oggi la nostra ricerca è l’unica ad aver valutato i possibili effetti della presenza di bioplastiche sui fondali marini e sulla crescita di organismi vegetali superiori – conclude Lardicci – i rischi di una possibile massiccia immissione di plastiche cosiddette “biodegradabili” nei sedimenti marini e gli effetti diretti e indiretti del processo di degradazione sull’intero habitat sono aspetti in gran parte ignorati dall’opinione pubblica e non ancora adeguatamente indagati dalla letteratura scientifica”.

 

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